Lo sport preferito dagli americanisti? Parlar male dell’America
16 Gennaio 2007
Il 6 gennaio 2007 gli oltre cinquemila membri della American Historical Association, nel loro congresso annuale, quest’anno tenutosi ad Atlanta, in Georgia, hanno deliberato “di fare quanto in loro potere per arrivare a una fine rapida della guerra in Iraq”. La AHA, che è l’associazione professionale che raggruppa gli storici che lavorano negli Stati Uniti (ma non soltanto sugli Stati Uniti), non poteva essere più ecumenica. Chi potrebbe dirsi favorevole al contrario, cioè al prolungamento a oltranza di questa guerra, o di qualsiasi guerra? Il problema, naturalmente, è di che “fine” si parla: ritirare le truppe e lasciare che gli iracheni se la sbrighino da soli? Sconfiggere il terrore e i terroristi una volta per tutte? Trovare una soluzione di compromesso che renda possibile il passaggio a una fase successiva, che segni comunque un miglioraento?
La soluzione “ecumenica” della AHA significa soprattutto che gli storici americani, nonostante la loro caratteristica di “lavoratori intellettuali”, rispecchiano in modo più o meno fedele l’opinione della maggioraza degli americani, i quali, nonostante il diminuito entusiasmo per la liberazione dell’Iraq e le critiche portate all’amministrazione Bush, continuano a ritenere che l’esportazione dei valori democratici e liberali siano cose giuste e che l’oscurantismo islamo-fascista sia un pericolo reale per i valori del mondo occidentale, anche quando non si esplichi attraverso il terrorismo.
Curiosamente, le associazioni americaniste (quelle cioè che si occupano soltanto di Stati Uniti e che sono dominate dai critici letterari) hanno preso in passato posizioni diverse. Per esempio, la presidentessa della American Studies Association, Amy Kaplan, invitata nel novembre 2003 a tenere la prolusione d’apertura al congresso annuale degli americanisti italiani (Associazione Italiana di Studi Nord Americani, circa quattrocento membri), aveva approfittato dell’ampia platea che le era stata offerta per una lunghissima tirata contro l’imperialismo americano, il suo presidente, le carceri di Guantanamo, la guerra in Afghanistan, e andate dicendo, suscitando entusiasmo e standing ovations tra gli americanisti italiani presenti. Fondamentalmente, ciò che Kaplan predicava dal pulpito era di utilizzare la rete mondiale delle associazioni americaniste per attaccare ed eventualmente abbattere il governo americano. (Che fossero stati i finanziamenti governativi americani a rendere possibile la vita di tali associazioni e in ultima analisi ad avere pagato il suo biglietto aereo era una questione morale che sembrava non interessarla.)
Sedevo allora tra quel pubblico osannante Kaplan, tra i pochissimi a non applaudire, e toccavo con mano una volta di più quale “odio anti-americano” si celasse tra gente che non soltanto studia l’America, ma che vive di America — insegnandola all’università, disputandosi le borse di studio delle sue prestigiose università, fregiandosi di soggiorni presso i migliori istituti di ricerca al mondo, procacciandosi fondi, governativi e no, che consentono loro di vivere il meglio di quanto il mondo occidentale ha da offrire. E tutto questo nella più completa libertà, accademica, politica e individuale.
In un’altra occasione, si era nel 1975, l’Ufficio Culturale dell’Ambasciata Americana in Italia, aveva chiesto agli storici americanisti italiani, di cui finanziava le attività, di ospitare in una riunione un giovane storico americano, Michael Ledeen, che si trovava allora in Italia per studiare fascismo e terrorismo. A malincuore, il decano del gruppo, Giorgio Spini (1916-2006), consentì a Ledeen di dire due parole all’inizio della riunione. Poi la porta fu chiusa e cominciò il fuoco di fila dei presenti contro il governo americano, il presidente Gerald Ford, la Central Intelligence Agency (sempre minacciosamente abbreviata in CIA), così via.
Intendiamoci, molte di quelle opinioni erano certamente legittime. Ledeen fa oggi parte dell’American Enterprise Institute, un think thank conservatore statunitense, ed era ed è sempre stato persona “di destra”, qualsiasi cosa ciò voglia dire. Ma anche in quella occasione, di quasi trent’anni precedente all’episodio della Kaplan, ciò che soprattutto univa gli americanisti italiani era l’anti-americanismo, quello i cui termini sono stati cosàì bene riassunti da Massimo Teodori (storico americanista lui stesso) in Maledetti americani (2002) e Benedetti americani (2003). La curiosa categoria dell’anti-americanismo unisce quattro elementi fondamentali. Il primo è l’interesse per il paese, visto che nessuno obbliga un americanista a diventare tale. Il secondo elemento è l’opposizione, di principio e “di pelle”, al cosiddetto establishment, qualunque esso sia. Il terzo è il disprezzo per la maggioranza degli americani (quelli che poi democraticamente votano ed eleggono i loro governi), tutti tacciati di essere obesi, bevitori di birra, mangiatori di burro di arachidi e frequentatori di locali di fast food, nonché genericamente ignoranti (alla faccia delle migliaia di biblioteche pubbliche circolanti che noi nepure ci sognamo).
Ma il quarto elemento di questo anti-americanismo, e forse il più importante, è la fideistica convinzione che esista, da qualche parte, un'”altra America”. Quest’ultima sarebbe la “vera e unica America”, quella che prima o poi si dovrà ribellare e prendere il potere. Questa “altra America” è stata nel tempo variamente identificata come gli operai, i negri, gli studenti, i beatnik, le donne, gli indiani, le minoranze etniche, a cui oggi sono stati aggiunte altre categorie quali gli omosessuali, gli immigrati illegali, e avanti così. Il fatto che poi gli operai abbiano sempre votato in modo corporativo, gli immigrati si siano integrati “a destra”, gli indiani e gli studenti siano profondamente conservatori (salvo le poche frange militanti), i beatnik profondamente reazionari nel loro nichilismo, e che si stato proprio il tanto odiato Bush a nominare i primi due americani segretari di stato afroamericani, Colin L. Powell e Condoleezza Rice (quest’ultima addirittura donna), non scalfisce questa religiosa certezza in un futuro “altro e diverso”.
Soltanto per un breve periodo dell’ultimo dopoguerra l’America (quella mainstream) ha goduto di una buona immagine in Italia negli ambienti culturali. Si trattava soprattutto di giuristi e di studiosi del pensiero politico, tutti antifascisti, quasi tutti liberali e federalisti, i quali vedevano nel modello americano l’unica reale alternativa alla minaccia del comunismo. Gente come Vittorio De Capraris (1924-1964), Rosario Romeo (1924-1987), Nicola Matteucci (1926-2006) e Mauro Calamandrei i quali modellarono sulla cosidetta Scuola del Consenso americana, con l’aiuto di Louis Hartz (1919-1986), una famosa serie di diciassette volumi “fondamentali” uscita tra il 1960 e il 1967 presso Il Mulino con il sostanziale aiuto finanziario dell’United States Information Service (USIS).
Bollati come “reazionari”, per non dire come “agenti della CIA” pagati dall’USIS, schiacciati tra l’intelligentsia comunista da una parte e il magma cosiddetto “cattolico”, rappresentato soprattutto dalla Democrazia Cristiana e dall’apparato burocratico dello stato, i rappresentati liberali della Scuola Liberale chiusero la loro esistenza progettuale “di gruppo” nei primi anni sessanta, quando il passaggio ai governi di centro-sinistra mostrò che nessuna forza politica italiana di un qualche peso aveva alcuna desiderio di turbare gli antichi equilibri applicando al nostro paese rimedi istituzionali di tipo americano alle nostre antiche malattie politiche.
A loro si sostituirono, soprattutto nella seconda metà degli anni settanta e almeno fino alla caduta del muro comunista, una schiera di giovani americanisti di professione (storici e sociologi, ma sopratttutto critici letterari), la cui caratteristica più comune era la critica “da sinistra” agli Stati Uniti. Una critica variamente di ispirazione marxista, unita soprattutto dall’interesse per il dissenso (la cosiddetta “altra America”), dall’innato stupore per l’assenza di “socialismo” negli Stati Uniti, e dal carattere fortemente militante della propria professione di storico. Penso, in quegli anni, anche a storici di valore Bruno Cartosio, Maurizio Vaudagna, Arnaldo Testi e Ferdinando Fasce, i quali, a differenze di altri, spariti da tempo nei gorghi della ripetitività delle formulette vetero-marxiste, continuano a operare in circoli della sinistra radicale e a utilizzare soprattutto le pagine del Il Manifesto quale oro tribuna di dibattito privilegiato.
Se già è difficile, nell’ambiente universitario e intellettuale delle scienze umane, prendere pubblicamente posizioni che non siano allineate automaticamente “a sinistra” e in senso anti-americano, laddove dove perfino il liberalismo più aperto viene guardato con sospetto, è curioso che proprio tra gli americanisti sia dia per scontato, sempre e comunque, che chi si occupa del’America, e con pochissime eccezioni (per non fare che due nomi: Massimo Teodori e Antonio Donno), non possa che essere anti-establishment, anti-Bush, contro l’intervento americano in Afghanistan e in Iraq, contro l’alleanza tra Stati Uniti e Israele, e così via. Insomma, pare proprio che in Italia, non si possa essere americanisti se non si è, sempre e comunque, anti-americani. Consoliamoci: in Germania e soprattutto in Francia è anche peggio.