Lo Stato laico ha bisogno della religione

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Lo Stato laico ha bisogno della religione

Lo Stato laico ha bisogno della religione

24 Giugno 2007

Il 12
giugno Liberazione, quotidiano di
Rifondazione comunista, ha pubblicato un articolo dal titolo “La sindrome del
relativismo. Ratzinger venditore di apocalissi” che discute il pensiero di
Benedetto XVI e
trova nelle sue opere solo “pochezza logica e argomentativa di vecchie tesi”. A
suo dire “dopo papi di grande levatura intellettuale e spirituale, siamo oggi
in presenza di un modesto conoscitore di cose filosofiche”. Ecco, dunque, che
“la riduzione della complessità (lo dimostra l’esperienza dei talebani in
Afghanistan) è una strategia di controllo e disciplinamento delle derive
intellettuali e sociali in grado di fornire un’immagine rassicurante e
tranquillizzante della modernità”. Secondo Liberazione
“banalizzazione e semplificazione sono due categorie funzionali alla proposta
di un potere pastorale che, in una società globale che non si lascia governare,
e spesso neanche amministrare, piega a proprio vantaggio le passioni tristi – panico
sociale, incertezza, percezione di precarietà inadeguatezza al compito –
offrendo just in time conforto e riparo preconfezionati come i fagioli Campbell”.
E ancora “la strategia argomentativa è, nella sua stratificazione,
intelligente: il tema viene enunciato in termini generalissimi da Ratzinger e
pedissequamente ripetuto in primis dagli editorialisti dell’Avvenire, e
rilanciato dagli atei devoti del Foglio e da una corte dei miracoli che va dal
Domenicale a Marcello Pera e a una lunga schiera di politici che, come cartelli
stradali, indicano in direzione di valori dai quali si tengono ben distanti,
sino a coccolati ex-nichilisti – da Giovanni Lindo Ferretti a Valter Binaghi –
beatificati da un’aura di pentimento ostentata come le stimmate di padre Pio (e
come quelle dal vago sentore di acido fenico)”.

Fin qui in sintesi, ma l’analisi richiama il discorso di Regensburg, il cardinale
Bellarmino, monsignor Fisichella, un ignoto “PeRatzinger” e giunge al giudizio
globale su tutta l’opera di Joseph Ratzinger che cito alla lettera: “una
stronzata”. Stesso giorno, sul Corriere
della Sera
, Christopher Hitchens scrive che la rovina del mondo sono le
religioni, poiché esse non solo sono sbagliate, ma un cumulo di ignoranza,
superstizione, masochismo dolorante e arrogante, imbroglio di potere e esca per
fessi.

L’obiettivo polemico è quindi la
religione e soprattutto la Chiesa cattolica, e trova nella cronaca recente la
prova delle reazioni alle “indebite ingerenze” dell’autorità ecclesiale nelle
vicende politiche ed etico-legislative italiane che, secondo parte della
cultura “laica” soffoca la libertà sia della ricerca scientifica che dei
comportamenti individuali e rappresenta una minaccia per lo Stato laico. Considerando
ora solo gli ultimi episodi di questa lotta culturale, dal “caso Buttiglione”,
candidato nel 2004 dal governo italiano a vice-presidente della Commissione
europea e “bocciato” per la sua “intransigenza cattolica e incapacità di
radicarsi col nuovo irrinunciabile pluralismo delle istituzioni europee”, alle
discussioni sull’inserimento o meno nella Costituzione Europea del riferimento
alle “radici cristiane dell’Europa” e le accese polemiche sulle tematiche
bioetiche, specialmente in riferimento alla legge 40 del 2004 sulla
fecondazione assistita, e sul conseguente referendum abrogativo del giugno
2005, se ne ricava l’impressione di una guerriglia logorante e infinita negli
schieramenti politici e l’orizzonte di una lotta tra laici e cattolici
lacerante per la società italiana. Per finire, l’ultimo fatto. La recentissima
approvazione della risoluzione europea contro l’omofobia, nella quale si è
introdotto forzando recenti dichiarazioni del presidente della Cei monsignor
Bagnasco, una condanna esplicita del suo pensiero e più in generale
dell’insegnamento cattolico in tema di famiglia e di sessualità.

Ebbene, nonostante l’invito
giunto da più parti (politici, intellettuali, opinionisti) ad abbassare i toni e l’esortazione in più occasioni del capo
dello Stato Giorgio Napolitano ad “ascoltare la Chiesa”, con il conseguente perentorio
appello ad ancorare la democrazia a valori forti, la polemica a senso unico
contro la Chiesa travolge ogni buon senso e invece di essere espressione di
libertà di critica e di pluralismo vero, diventa asfittica polemica tra clericali
e anticlericali e tende a riproporre una spaccatura fra laici e cattolici dal
sapore un po’ anacronistico. Innanzitutto, dopo un rapido sguardo a questi
avvenimenti, oggi, si deve ricordare che il principio di laicità dello Stato è
stato definito dalla Corte costituzionale, come principio supremo non
assoggettabile a revisione  della
costituzione, avendo per contenuto l’attitudine dello Stato a non essere né
indifferente né ostile alle esigenze della coscienza religiosa dei cittadini.
Coscienza religiosa sia dei credenti in diverse religioni sia dei non credenti:
questo è lo Stato-comunità, servitore dei cittadini, non di una ideologia. Quanto
sia inadeguato paragonare la Chiesa ad un altro Stato è del tutto evidente. Va poi
sottolineato che fra comunità civile e comunità religiosa, fra Stato e Chiesa,
vi è una distinzione di ordini messa in luce dall’art. 7 della Costituzione
italiana e dal paragrafo 76 della Gaudium
et Spes
, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del
Concilio Vaticano II, cui segue una vicendevole collaborazione “per la
promozione dell’uomo e il bene del Paese”, ribadita nel 1984 dal Nuovo
Concordato Lateranense all’art. 1. Del tutto coerente con questo è il diritto
rivendicato dalla Chiesa (Cost. past. Gaudium et spes, 76) “sempre e dovunque,
di  predicare con vera libertà la sua
dottrina sociale e di dare giudizio morale, anche su cose che riguardano
l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della
persona e dalla salvezza delle anime (…)”. Tutto questo non ripropone una
subordinazione dello Stato alla Chiesa, anche quando il giudizio morale e
l’insegnamento riguarda aspetti della vita sociale ed iniziative delle istituzioni
pubbliche. Unitamente esclude una subordinazione della Chiesa allo Stato, che
si avrebbe se fosse limitata la libera espressione di un giudizio morale. E’
questa indipendenza consente alla Chiesa di indicare valori immutabili, formare
coscienze, di educare alle virtù personali per la vita privata e politica.

Si può comprendere che il giudizio
morale del Papa ed il suo insegnamento in questioni per le quali si manifestano
opinioni diverse ed anche vivacemente contrastanti nella società, non sia
condiviso. Si può comprendere il dissenso a quell’insegnamento e che lo si
contrasti, ma non si può comprendere che si pretenda di escludere la
legittimità di manifestare quel giudizio, colpendo così la libertà di
esprimerlo: ne sarebbe ferita non solo la libertà della Chiesa, ma la stessa
libertà di manifestazione del pensiero. La Chiesa cattolica non interviene per
problemi temporali, non ha poltrone da conquistare, maggioranze politiche da
scalare; non ha intenzione di “attentare alla laicità”. La sua maggioranza è
l’uomo, con l’unico disegno di salvaguardarne la dignità è l’integrità fisica e
morale. Naturalmente propone la sua visione della
società, punta il dito su concetti concreti, su valori inderogabili, non
negoziabili e non disponibili, sul terreno dell’etica pubblica: la sacralità
della vita umana in tutte le sue forme e le sue fasi, la centralità della
famiglia tradizionalmente intesa. Quindi l’insieme delle questioni che
riguardano più da vicino l’esistenza umana: la vita, e con la vita, la morte,
le relazioni fra le persone, la conoscenza dei misteri della sopravvivenza, la
possibilità di influenzare le nascite. Insomma, ogni momento della vita umana
dal concepimento fino al suo termine naturale. Nel discorso pronunciato di
recente in Brasile, il Papa ci offre come prima sensazione quella delle
moltitudini e degli orizzonti planetari, propri alla dimensione universale
della Chiesa e ha in proposito parole inequivocabili: “Se la Chiesa cominciasse
a trasformarsi direttamente in soggetto politico, non farebbe di più per i
poveri e per la giustizia, ma farebbe di meno, perché perderebbe la sua autorità
morale, identificandosi con un’unica via politica e con posizioni parziali
opinabili”. In un saggio Perché non possiamo non dirci “cristiani”
(rivista “La critica”, 20 novembre 1942) Benedetto Croce scrisse sul
cristianesimo considerato come la più grande rivoluzione dell’umanità: “Una ben
significante riprova porge di questa storica interpretazione il fatto che la
continua e violenta polemica antichiesastica, che percorre i secoli dell’età
moderna, si è sempre arrestata e ha taciuto riverente al ricordo della persona
di Gesù, sentendo che l’offesa a lui sarebbe stata offesa a sé medesimo, alle
ragioni del suo ideale, al cuore del suo cuore”.

Del resto, esprimere un giudizio
morale ed un magistero, anche quando rivolto ai rappresentanti delle istituzioni
politiche, non significa esercitare un potere né “dettare legge direttamente
alle istituzioni”. Piuttosto è una chiara affermazione dei valori coinvolti in
scelte legislative che incidono sulla vita e sulla concezione dell’uomo, ed un
giudizio su tali scelte rimane espressione di un magistero che sollecita la
coscienza di chi ascolta rimettendo l’adesione ad un atto di libertà. Il senso
vero ci pare essere il richiamo all’importanza di un criterio morale di
giudizio, per cercare sempre la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è
male. Su questa base dovrebbe essere non impossibile una generale concordanza,
anche se poi in concreto non è sempre semplice riconoscere e distinguere bene e
male, giusto e ingiusto. Ma senza ricerca constante, tuttavia, senza impegnare
la propria coscienza ad interrogarsi di continuo sulle scelte da compiere,
nessun bene duraturo potrà derivarne per la vita personale e collettiva.

Rimane, allora, l’impressione che
la denuncia di indebita “ingerenza” dell’autorità ecclesiale nella sfera pubblica
e nelle questioni etico-legislative intenda non solo mettere da parte una voce
autorevole e discordante dalla propria impostazione, ma anche escluderla. E
tuttavia, a questo proposito, tenendo conto che anche all’estero intellettuali
laici  – come Jurgen Habermas – affermano
da anni la necessità di “riportare in pubblico le
religioni” dopo che “la società liberale, laica, borghese, capitalistica,
dominata dalla mentalità scientifica” le aveva confinate nella sua dimensione
privata del singolo, è forse giunto il momento che il mondo “laico” italiano
rifiuti determinate espressioni e atteggiamenti che si radicano in veri e
propri dogmatismi antiquati. Ebbene, l’indicazione di
Habermas emerse nel corso di un dibattito con il Cardinale Ratzinger che si
svolse il 19 gennaio 2004 a Monaco. In quell’occasione l’intellettuale laico,
senza rinunciare alle sue idee filosofiche di fondo, antimetafisiche e
rigorosamente non religiose, ha riconosciuto come “l’orizzonte religioso non
appartiene al passato”. Habermas, rivolgendosi alla cultura “laica”, osservava
che “le indicazioni della Chiesa, in particolare, quando essa offre il suo
contributo alla difesa e alla promozione della dignità dell’uomo, possono
veicolare preziosi contributi cognitivi per la ragione secolare. Il bene umano
chiede a tutti, credenti e non, una rigorosa attenzione alla verità dell’uomo”.
Conclude: “Sia la ragione secolare che la ragione credente debbono entrare in
un processo di apprendimento complementare, in particolare per quel che
riguarda i temi più controversi della sfera pubblica”.

Parlare oggi di conflitto tra
Santa Sede e Stato italiano è indubbiamente eccessivo, ma la sensazione è che
il dibattito sui Dico abbia fornito una prova destinata a lasciare un segno negativo
nel dialogo tra laici e cattolici, credenti e non credenti. In proposito, ancor più responsabile di questo
scontro culturale artificioso in atto è una consistente parte della classe
politica che, spesso solo per opportunistici interessi, appare sempre più
disattenta e accondiscendente verso gli estremismi più radicali, incapace probabilmente
di impegnarsi nella difesa di uno Stato laico. E qui, per uscire da una tale
pregiudiziale opposizione ed evitare un conflitto Chiesa-Stato, quale fu nel
Risorgimento – non del tutto spento nel periodo fascista e in quello
democristiano – occorrerà un impegno di reciproca comprensione che possa
contribuire alla soluzione degli indubbi problemi, che sorgono nel cercare di
far convivere nelle dimensioni sociale, etica e politica la visione cattolica e
quella laica. La laicità, “principio supremo dell’ordinamento costituzionale”, va
difesa con sempre maggiore convinzione. L’impegno è preservare e consolidare il
principio dell’assoluta laicità dello Stato come unica vera garanzia della
libertà di ciascuno, compresa la libertà religiosa, e utilizzare la religione
come strumento per la spiritualità ed i temi sociali. In tal caso la Chiesa
cattolica è libera di pronunciarsi, ma non di fare politica, di dare
indicazioni di voto ai parlamentari o ai cittadini. E’ libera di esprimere
opinioni politiche che valgono per chi è disposto ad ascoltarli.

Stato e Chiesa rimangono indipendenti e sovrani; lo Stato laico non è
contro la religione, né le è indifferente, ma assicura il libero e paritario
confronto di tutte le posizioni religiose e ideali, senza ingerenze. Laicità
che non riguarda solo il principio di separazione fra Stato e Chiesa, ma
significa distinguere gli ambiti della ragione e della fede, ossia limitandosi
a proporre nel dibattito pubblico e politico solo ciò che è motivabile con
argomenti razionali ed escludendo un riferimento a Dio e alla sfera divina. Laicità
che si declina in una concezione dell’attività legislativa alimentata dal
valore intrinseco della persona e da una concezione del potere alieno da ogni
investitura dall’alto. Laicità: riconoscimento reciproco e non reciproche
delegittimazioni finalizzate allo scontro in nome della fede, che sono tutto il
contrario della cultura costituzionale e dei valori della nostra democrazia.