Lobbisti e fieri di esserlo

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Lobbisti e fieri di esserlo

30 Giugno 2011

Il recente caso Bisignani dimostra come in Italia sia diffusa ancora la confusione tra affaristi, faccendieri e lobbisti. Questi ultimi, al contrario dei primi due, appartengono a una categoria professionale che svolge un’attività che, soprattutto nei Paesi anglosassoni, è regolamentata, resa trasparente e riconosciuta come imprescindibile dal buon funzionamento della democrazia.

Accanto al nome di Luigi Bisignani compaiono in questi giorni i più svariati aggettivi: faccendiere, affarista, pidduista e capo della P4, addirittura “nuovo Licio Gelli”. Nessuna di queste “qualifiche”, però, chiama in causa un’intera categoria professionale – gettando fango su un’attività legittima – come fa invece l’aggettivo “lobbista”. Non è del resto una pratica nuova, bensì una consuetudine consolidata nel gergo giornalistico e nell’opinione pubblica, connotare il termine “lobbista” con un carico di accezioni negative. E così il lobbista diviene colui che intrattiene rapporti poco limpidi con il parlamentare di turno, che offre belle donne e macchinoni in cambio di una leggina a favore del proprio committente, che procede sempre al limite del legale e dell’eticamente accettabile, e spesso va oltre.

Se chiedete a un cittadino statunitense o britannico che giudizio si accompagna nel suo Paese all’attività di lobbying, vi sentirete rispondere che è una pratica assolutamente normale, prevista e regolamentata dall’ordinamento giuridico; addirittura, nel caso degli Usa, parte integrante del sistema costituzionale americano. Certamente, in questi Paesi non sono mancati scandali legati ad attività di pressione sui decisori pubblici su cui è intervenuta la magistratura: uno per tutti lo scandalo legato al nome di Jack Abramoff, milionario lobbista americano che fu condannato nel 2006, insieme ad altri soci d’affari, per un giro di regali e donazioni elettorali che fece tremare i vertici del Partito Repubblicano. Ma questo, negli Stati Uniti, viene considerato un caso di deviazione patologica rispetto alla norma, tra l’altro prontamente punita dall’apparato giudiziario.

In Italia, invece, si pensa comunemente che il ricorso a mazzette, tangenti e finanziamenti illeciti facciano parte del prontuario del lobbista, del responsabile relazioni esterne di un’azienda o di un’organizzazione. Certo, il terremoto Tangentopoli storicamente non ha contribuito a diradare tale concezione erronea. E ora il caso Bisignani sembra rafforzare questa convinzione. Ma se nel nostro Paese s’incominciasse a scindere quello che fa un “faccendiere” da ciò che fa un lobbista, si contribuirebbe non solo a fare chiarezza nelle idee delle persone, ma soprattutto ad accelerare il dibattito pubblico sulla necessità di una legge-quadro che regolamenti e renda trasparente l’attività di lobbying, riconoscendo professionalmente la figura del lobbista e prevedendo sanzioni per chi non rispetta la norma.

Come molto spesso avviene in Italia, anche su questo tema la società civile si è mossa con largo anticipo rispetto alla politica. Nel 2000 è nata Reti, “la prima società italiana di Lobbying e Public Affairs” – come si legge nelle pagine del sito – fondata da Massimo Micucci, Antonio Napoli e Claudio Velardi. La mission di Reti è quella di aiutare “aziende e associazioni a rappresentare i loro interessi presso i decision-maker in modo esplicito e trasparente”. Ovvero, ciò che s’intende per lobbying. Proprio Claudio Velardi, che in passato ha avuto incarichi politici ed è uno dei più noti consulenti politici italiani, ha rivolto una lettera al Corriere della Sera, pubblicata domenica scorsa, dall’eloquente titolo “Confesso, sono lobbista (ed è una cosa seria)”. Nella lettera, Velardi spiega che “le intercettazioni da cui siamo sommersi non hanno nulla a che fare con la realtà del lobbismo moderno, che si muove nel mare della Rete, dei social network e dell’open data, e opera sulla base di due parole-chiave: trasparenza e partecipazione. Concetti, inutile dire, quanto mai lontani dalla realtà della pubblica amministrazione e della politica italiana”.

Sul Tempo di venerdì scorso, invece, è intervenuto Giuseppe Mazzei, presidente de Il Chiostro per la trasparenza delle lobby, associazione che riunisce quanti, tra i professionisti dei public affairs, condividono l’obiettivo di “promuovere la cultura, la pratica e la regolamentazione della trasparenza nella rappresentanza degli interessi”. In un articolo dal titolo evocativo “Lobbismo e pregiudizio”, Mazzei afferma amareggiato che dare contro ai lobbisti “è diventato uno sport nazionale, molto praticato, in particolare in coincidenza con inchieste della magistratura che spesso non hanno niente a che vedere con l’attività di rappresentanza degli interessi”. La conseguenza è che “molti professionisti che quotidianamente svolgono il proprio lavoro con serietà, moralità e rispetto per le istituzioni, sono costretti a subire l’umiliazione di sentirsi dipinti a tinte fosche come loschi figuri che si muovono nell’ombra, operano al limite della legalità a volte sconfinando nei giardini del male della corruzione. Non credo – prosegue Mazzei – che si possa più tollerare una mistificazione di questo genere. È ora di fare chiarezza su questa professione e di chiedere al Parlamento italiano una legge che regolamenti questa attività”.

Un appello condivisibile, che sottolinea come la questione della regolamentazione dell’attività di lobbying non troverà mai soluzione finché non sarà la politica a prenderne coscienza. A capire, soprattutto, come un rapporto trasparente con i lobbisti non possa che facilitare il lavoro del vero politico, che consiste nel recepire tutte le informazioni e tutte le istanze provenienti dalla società civile, per poi decidere nell’interesse generale e in piena autonomia. Pensiamo al giudizio che dava dei lobbisti il presidente americano John F. Kennedy “Mi fanno comprendere un problema in dieci minuti, mentre i miei collaboratori impiegano tre giorni”. La soluzione non consiste certo nell’affidare le sorti della democrazia rappresentativa a gruppi che, in ogni caso, hanno come scopo ultimo la tutela di un interesse particolare. Ma se l’attività di questi gruppi fosse regolamentata e resa trasparente, il sistema democratico italiano ne guadagnerebbe in legittimità ed efficienza. E colmerebbe un vulnus legislativo, che risulta sempre più urgente risolvere.