L’obiettivo degli attacchi in India sono gli inglesi e gli americani

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L’obiettivo degli attacchi in India sono gli inglesi e gli americani

L’obiettivo degli attacchi in India sono gli inglesi e gli americani

27 Novembre 2008

Avvenne il 14 aprile del 1944 nella baia di Bombay: nome che viene appunto da una pronuncia inglese del portoghese seicentesco Bom Baim, “Buona Piccola Baia”. Il mercantile Fort Stikine, sovraccarico di cotone, prese fuoco mentre faceva la fila per l’attracco, semplicemente per l’intensa pressione delle balle in quella giornata di caldo torrido. Intervennero i pompieri, e per spegnere con più comodo rimorchiarono la nave in porto. Ma sotto al cotone gli inglesi avevano nascosto esplosivi in quantità, e sotto gli esplosivi oro e argento per due milioni di sterline, inviate da Londra per sostenere la debole rupia indiana in quei difficili tempi di guerra contro il Giappone. Nel botto, 298 persone morirono all’istante.

E poi, racconta lo scrittore Suketu Metha, “cominciò a piovere. Il cielo sopra Bombay si riempì d’oro e d’argento, di detriti, mattoni, travi d’acciaio, membra e torsi umani, che volarono fino a Crawford Market. Un gioielliere se ne stava seduto sul suo ufficio nel Jahaveri Bazar quando un lingotto d’oro, sfondando il tetto, atterrò proprio davanti a lui. Una trave d’acciaio solcò il cielo della città e sfondò il tetto del Victoria Terminus, la principale stazione ferroviaria. Una lastra di ferro decapitò di netto un cavallo. Le banchine del porto erano cosparse di membra e frammenti umani”.

“Ancora negli anni Settanta, durante operazioni di dragaggio del porto, furono rinvenuti lingotti d’oro provenienti dalla nave. Ma l’esplosione generò anche una montagna di detriti meno pregiati che le autorità inglesi decisero di utilizzare per strappare terra al mare. Cominciarono a colmare la Back Bay, dove crescevano le mangrovie, creando l’attuale Nariman Point, che col tempo sarebbe diventato il quartiere degli uffici peggio pianificato dell’India moderna, il primo responsabile delle condizioni dell’odierna Bombay”.

È questa esplosione dispensatrice allo stesso tempo di morte e ricchezza, di crescita e caos, che Metha assunse a cifra dell’intera città di Bombay nel suo libro “Maximun City Bombay città degli eccessi”. Oggi la città ha circa 13 milioni di abitanti. Dal punto di vista religioso: 80% di indù, 14% di musulmani, 4% di jaina, 2,5% di cristiani e sikh, un 1% scarso di parsi, e una quota residua di buddhisti e altre religioni in cui spicca anche la più importante comunità ebraica dell’India, che in passato diede a Bombay anche un sindaco.

Dal punto di vista etnico: 53% di marathi, 22% di gujarati, 17% di oriundi dall’India del Nord, 3% di tamil, 3% di sindhi, 2% di tulu e kannada. Gujarati, sikh, jaina, parsi e ebrei fa una straordinaria concentrazione di  “popoli classe”, per usare la famosa etichetta di Abram Leon, dalla spiccata capacità imprenditoriale. Un po’ autoctoni di Bombay; un po’ attratti là quando dopo l’apertura del Canale di Suez il suo porto divenne il nuovo grande capolinea della rotta dall’Inghilterra, al posto di Calcutta.

A Bombay si concentra oggi il 38% del gettito fiscale di tutta l’India, il 10% della manodopera industriale, il 40% dell’interscambio commerciale, il 40% del traffico marittimo, il 70% delle transazioni di capitale. Da Bombay viene il 5% del Pil indiano e il 25% della sua produzione industriale.  A Bombay hanno sede Banca Centrale, la Zecca, imperi industriali e finanziari come quello dei parsi Tata, recenti e strategici partner di Fiat e Confindustria.

Bombay è, con New York, Anversa e Tel Aviv, uno dei quattro grandi centri di taglio dei diamanti del mondo: l’unico non dominato da operatori di origine ebraica, anche se gli specialisti del settore sono in gran parte appartenenti a un’altra minoranza religiosa, quella degli jaina. E a Bombay, pure come a New York, stanno ben due Borse: la National Stock Exchange, terza al mondo per volume di transazioni, e la Bombay Stock Ecxhange.

Naturalmente Bombay è anche la Hollywood indiana Bollywood, anche se in India fanno osservare che semmai dovrebbe essere Hollywood ad essere definita la Bollywood statunitense. Il primo film a Bombay si fece nel 1897, con quasi un decennio di anticipo rispetto alla California. E con 1000 film, 40.000 ore di programmi Tv e 5000 titoli musicali che Bollywood esporta ogni anno in settanta Paesi, il risultato è che in quello stesso anno nel mondo i film indiani vendono un miliardo di biglietti in più rispetto ai film hollywoodiani. “Sono disponibili più canali tv qui che nella maggior parte delle città degli Stati Uniti”, constatava Bill Clinton nel corso del suo viaggio a Bombay del 1999. 

Ma Bombay è anche una povertà immensa, fianco a fianco con la stessa ricchezza. I 13 milioni di abitanti diventano 19 con le due città satelliti di Navi Mumbai e Thane: il quinto agglomerato urbano nel mondo, di cui si calcola però che diventerà il primo già nel 2015, con 27,4 milioni di abitanti. E i due terzi dei marciapiedi sono letteralmente coperti dai senza tetto che dormono per strada.

Ovviamente, la sovrappopolazione di genti e comunità crea cosmopolitismo illuminato ma anche odi etnici. Infatti, fin dal 1966 nacque il partito dello Shiv Sena: letteralmente, l’”Esercito di Shivaji”, da un condottiero indù del ‘600. L’ideologia: un misto tra estremismo indù, ostilità per gli immigrati e i musulmani, richiesta di preferenza per i locali marathi negli impieghi. Fondatore, anche se nel 2006 ha poi litigato con gli altri dirigenti e se ne è andato a fondare un partito per conto suo: Bal Thackeray: vignettista politico, figlio di un intellettuale che aveva cambiato il nome di famiglia per quello dello scrittore inglese e che aveva cercato invano di farne un musicista.

Sostenitore delle Tigri Tamil, Bal è noto per il modo in cui si diverte a scioccare i visitatori stranieri con i suoi elogi di Hitler, ed ha pure scatenato i suoi seguaci a sfasciare i negozi e i ristoranti che seguivano la festa “straniera” di San Valentino. Ma in compenso è un ammiratore sfegatato di Michael Jackson. Fu nel 1995, quando andò al governo nello Stato del Maharashtra, che lo Shiv Sena impose il nome Mumbai: dal marathi "Mumba-Aii", "Madre Mumba", una dea indù.

In realtà gli stessi abitanti erano sempre passati da Mumbai quando parlavano in marathi e gujarati, a Bambai quando parlavano in hindi e urdu, a Bombay se usavano l’inglese: allo stesso modo di un napoletano che dice Nnapule in dialetto, Napoli in italiano e Naples in inglese. Ma poiché l’inglese era lingua ufficiale assieme a hindi e marathi, l’imposizione di usare sempre Mumbai i tutte le versioni dei documenti pubblici ha avuto l’effetto di far cambiare il nome stesso della città a livello mondiale. Oggi lo Shiv Sena ha perso lo Stato, il cui First Minister è del partito del Congresso di Sonia Gandhi. Ma è tuttora uno Shiv Sena il sindaco.

Oltre al capolinea di tanti traffici legali, Bombay-Mumbai è poi capolinea di una quantità di traffici illegali: in particolare della droga e dei diamanti. E tra le varie mafie che lo controllano alcune sono indù, altre musulmane: sempre pronte a mettere in mezzo la politica, la razza e la fede per celare i propri meno nobili affari. Quando nel dicembre del 1992 una folla di indù distrusse a Ayodhya una moschea di cui si diceva che l’imperatore moghul Babar in sfregio agli indù l’avesse fatta costruire apposta nel luogo dove era nato il dio Rama, gli scontri che a Bombay si accesero tra musulmani e indù furono spontanei.

Ma quando nel gennaio del 1993 un’orda di estremisti indù si mise a attaccare i musulmani e le loro abitazioni e negozi, erano stati gli agitatori dello Shiv Sena e i mafiosi indù in cooperazione a agitare le acque: gli uni per attizzare quel moto politico che li avrebbe portati infatti alla vittoria elettorale; gli altri per togliere di mezzo i rivali islamici, oltre che per l’avere anche loro le mani in pasta nello Shiv Sena. Risultato: 900 morti, e 200.000 musulmani costretti a lasciare la città.

Solo nel 2008 un deputato dello Shiv Shena sarebbe stato condannato a un anno per quei moti, ma il 12 marzo 1993 era intanto arrivata la vendetta dei musulmani: dieci attentati dinamitardi in punti strategici della città, con 317 morti. Non era stata Al-Qaida e neanche i separatisti del Kashmir a colpire, ma la mafia musulmana: la famigerata D-Company del boss Dawood Ibrahim, uno dei narcos più ricercati del mondo, e con interessi importanti anche in Bollywood. Lo appurò il processo che nel 2006 avrebbe condannato un centinaio di persone.

In seguito ci sono stati altri attentati: due morti in un bus il 6 dicembre 2002; uno per una bici bomba il 27 gennaio 2003; dieci per la bomba su un treno il 13 marzo 2003; quattro in un bus il 28 luglio 2003; 52 per due auto bomba il 25 agosto 2003; infine gli attentati ai treni dell’11 luglio 2006, con 209 morti e 714 feriti, con ben 12 differenti esplosioni sincronizzate.

Gruppi con basi in Pakistan e Kashmir come lo Student Islamic Movement of India, Lashkar-e-Toiba, Indian Mujahadeen e adesso anche questi inediti Mujhaeddin del Deccan sembrano ormai aver preso il posto della D-Company, e con questi ultimi attentati l’attacco diretto a luoghi di ritrovo e hotel ha preso il posto delle consuete bombe. Inoltre, appare anche la novità degli stranieri inglesi e americani come obiettivo, al posto dei soliti indù (ma le bombe indiscriminate del 1993 ammazzarono anche un bel po’ di musulmani).

Però sembra difficile che la mafia islamica non abbia fatto per lo meno da base logistica e brodo di coltura. D’altra parte, già ai suoi tempi il formicaio umano di Bombay fu un eccellente nascondiglio per un terrorista del calibro di Carlos lo Sciacallo.