L’Occidente deve appoggiare la lotta dei dissidenti coi fatti non a parole
11 Dicembre 2007
Questa iniziativa si pone nel solco tracciato
dalla conferenza di Praga su “sicurezza e democrazia” (organizzata da Nathan
Sharansky, Vaclav Havel e José Maria Aznar
e dalle rispettive fondazioni, con il sostegno e la partecipazione di George W.
Bush%29, della quale si considera con orgoglio l’ideale prosecuzione.
Nel tempo trascorso dallo scorso mese di
giugno, quando i lavori di Praga si sono svolti, non sono venuti meno gli
interrogativi di fondo che quest’esordio di XXI secolo è giunto a sottoporci: cosa
fare per sconfiggere la prospettiva dello scontro di civiltà, portato
dell’estremismo islamico e cosa fare, di converso, per aiutare il processo di
democratizzazione che, nonostante tutto, prosegue senza soste a livello
mondiale.
Le
due questioni possono essere utilmente coniugate in alcune domande di fondo che
si possono così formulare: la storia recente ci ha rafforzato o meno nella
convinzione che un bene prezioso quale la democrazia, consolidato nel mondo
occidentale al punto che troppo spesso si finisce per darlo per scontato e
dunque per relativizzarlo, sia esportabile? E se si, è possibile o meno
conciliare la religione islamica con i regimi democratici?
Sono questi i quesiti che fanno da sfondo a una
conferenza sul dissenso nel mondo mediorientale. Perché la risposta politica che
un Occidente né nichilista né relativista può dare alle terribili storie di
vita che ieri abbiamo ascoltato può essere soltanto in termini di aiuti fattivi
affinché in regimi tirannici, oppressivi, in alcuni casi torturatori possa
nascere il fiore della democrazia.
Vorrei ribadire il concetto: noi abbiamo
tutto il rispetto che merita chi sa mettere a repentaglio la propria stessa
vita e quella dei suoi cari per difendere le proprie idee. Ma il nostro
interesse per il dissenso nel mondo islamico è di natura innanzi tutto politica
e non umanitaria. Perché sappiamo che oggi riaffermare l’universalità dei
diritti umani significa compiere un preciso atto politico contro il diffondersi
del politically correct, che tende a scegliere fior da fiore dove intervenire e
dove no: in America contro la pena di morte, ad Amsterdam a favore del reato
d’omofobia ma non quando a Teheran viene mandato all’impiccagione un
omosessuale.
E sappiamo perfettamente, inoltre che l’azione
dei dissidenti non è in contrasto con l’iniziativa diplomatica che, attraverso
molteplici strade, prova ad esercitare la sua pressione direttamente sui
governi.
L’esperienza della storia ci impone di non
scivolare, per eccesso di realismo o di cautela, in eccessi opposti. La lotta
dei dissidenti deve essere appoggiata e sostenuta. Innanzi tutto per una
ragione di carattere morale, di cui la politica non può dimenticarsi né
disinteressarsi, e che deve essere ben presente anche a chi dice d’ispirare la
propria condotta ai criteri della realpolitik. In quanto i precorsi dei
popoli e delle nazioni si sono fatti carico di dimostrare che cambiamenti di
portata epocale possano derivare soltanto da un’azione congiunta che provenga,
allo stesso tempo, dall’alto e dal basso.
Attingendo nel pozzo della storia si
possono rintracciare tanti esempi che lo confermano. Fra tutti, basti pensare
allo scetticismo e alle polemiche con il quale venne accolta – innanzitutto a
sinistra – la biennale del dissenso di cui quest’anno corre il 30esimo
anniversario. A posteriori la testimonianza di tanti dissidenti dei Paesi
dell’est ha chiarito a quegli scettici il contributo fattivo che venne da
quella e da altre esperienze consimili a un epocale cambiamento storico.
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Io credo che non poteva esserci
introduzione migliore a questo convegno di quella che potrà venire dalle parole
del professor Bernard Lewis: lo affermo come storico e, se Bernard mi consente,
come amico. Lo affermo con il legittimo orgoglio di chi presiede una Fondazione
– Magna Carta – che ha avuto l’onore di ospitare nel 2004 il professor Lewis, in
occasione della sua prima lettura annuale.
Perche non poteva esservi scelta migliore?
Perché Bernard Lewis è stato colui che ha evidenziato con più chiarezza d’ogni
altro lo stretto legame tra la crisi odierna del Medio Oriente e il mutamento
degli equilibri mondiali determinati dalla fine della Guerra Fredda. Laddove
infatti nel secolo scorso era la divisione in blocchi ad imbrigliare e
contenere la prospettiva dello scontro di civiltà, il venir meno di un simile contesto
geopolitico ha consentito la convergenza delle spinte secolari e di quelle
religiose nell’estremismo islamico. In tal senso, la figura di Nathan Sharansky,
che ha trascorso nove anni nei gulag, dal punto di vista simbolico assurge a
emblema del passaggio tra il dissenso di ieri e il dissenso di oggi: tra il
dissenso del tempo della Guerra Fredda e il dissenso che combatte gli errori
dell’odierno disequilibrio mondiale.
Per sconfiggere il terrorismo, è dunque necessario
che gli spazi d’azione politica – degli Stati, delle forze organizzate così
come dei singoli attori – vengano individuati tenendo conto della nuova
prospettiva nella quale si viene a trovare il mondo. Scontata la chimera
dell’imminente fine della storia, determinata dall’ottimismo seguito alla fine
del comunismo, la democratizzazione ha cessato d’essere un processo irreversibile
e di incarnare una sorta di nuovo finalismo, per trasformarsi in una drammatica
conquista necessaria per il governo dei nuovi equilibri mondiali.
Bernard Lewis ne è profondamente
consapevole. Egli è convinto che islam e democrazia non siano inconciliabili.
Ma che, al contrario, sia proprio la
democrazia l’unico antidoto efficace contro l’estremismo e il terrorismo. Un
antidoto difficile da somministrare, come la storia anche recente ci insegna.
Ma in prospettiva storica l’unico veramente efficace, anche se talvolta la
stabilità e il compromesso con il tiranno di turno appaiono espedienti più
agevoli, più a portata di mano.
Il contagio democratico nel mondo islamico,
infatti, non si ottiene con un conflitto, e neppure nel volgere di un limitato
arco di tempo. Valga su tutti, come Lewis ha ben illustrato nei suoi studi,
l’esempio della Turchia. Ma allo stesso modo il suo insegnamento ci dice che
non dobbiamo rinunciare in nome del realismo a sfruttare le possibilità che la
storia ci offre. Siamo consapevoli che non si può sperare ciò che è al di fuori
della realtà. Ma rinunciare a lottare per il possibile inseguendo il facile
approdo del probabile significherebbe sfuggire alla responsabilità che la
nostra condizione privilegiata di uomini liberi e benestanti viepiù ci impone.