L’odio contro in cristiani è nelle radici storiche dell’India
27 Agosto 2008
La banda in alto, nel tricolore indiano, è di color zafferano. Antico simbolo di ricchezza, tuttora caratteristico nelle tuniche dei sacerdoti dell’induismo: la religione che con 828 milioni di fedeli rappresenta l’80,4% della popolazione indiana. In basso c’è il verde: il colore delle oasi, augurale alle popolazioni del deserto in cui nacque l’Islam, fede di altri 147 milioni di indiani, il 13,4%. Il bianco, in mezzo, è l’emblema di purezza prescelto dal guru Nanak per quella fede sikh da lui fondata nel XVI secolo come “via di mezzo” tra induismo e islamismo, in pratica un monoteismo con reincarnazione: 19,2 milioni di fedeli, l’1,9%. Sul bianco, non manca l’antica icona buddhista che rappresenta come una metaforica ruota il ciclo di morti e rinascite da cui liberarsi con l’illuminazione: omaggio a un’altra grande fede mondiale che è nata in India, anche se poi vi si era estinta. Riportatavi nel XX secolo da un movimento di protesta contro il sistema delle caste, il buddhismo è tornato ad avere oggi in India 17 milioni di fedeli, l’1,5% della popolazione.
Insomma, una bandiera ecumenica, auspicio di unità nazionale tra le varie componenti spirituali del popolo indiano. Ma in cui nessuno spazio è stato lasciato a rappresentare i cristiani: che pure, con 24 milioni di fedeli, sono il 2,3% degli indiani. La terza religione per consistenza, dopo induismo e islamismo: su 28 Stati che formano la federazione ve ne sono ben tre a maggioranza cristiana, contro due a maggioranza islamica, uno a maggioranza sikh, uno a maggioranza buddhista e
Non si può dire in realtà che i cristiani in India siano cittadini di serie B. A parte che è loro concessa una legge civile per conto proprio, a somiglianza della comunità islamica; va ricordato che i cristiani sono sovrarappresentati nell’élite dirigente del Paese. Non solo, come è ovvio, sono cristiani i Chief Minister dei tre Stati a maggioranza cristiana di Nagaland, Mizoram e Meghalaya, ma ve n’è uno anche nell’Andhra Pradesh, dove arrivano appena all’1%. E in passato ve ne sono stati nel Manipur, dove oltrepassano il 40%; a Goa, dove sono il 26,7%; nel Kerala, dove sono il 19%; e a Chhattisgarh, dove sono il 2%. Nel comitato elettorale del Congresso Nazionale Indiano, il partito di governo, i cristiani sono 4 su 20: il 20% del totale. È cristiana la stessa segretaria del partito, Margaret Alva. È cristiano il ministro della Difesa Arackaparambil Kurian Antony, già Chief Minister del Kerala. Era un cristiano George Fernandes, suo predecessore tra 1998 e 2004, e grande artefice dell’atomica indiana. È cristiano il ministro del Lavoro Oscar Fernandes. Ed era un cristiano Alber Ekka: eroe della guerra contro il Pakistan del 1971, e primo militare indiano a ricevere la massima decorazione al valore. Eppure, non si può neanche dire che le manifestazioni di odio feroce di cui troppo spesso i cristiani dell’India sono vittime siano solo il risultato dell’intemperanza di plebaglie fanatiche occasionalmente scatenate. Così è stato presumibilmente nell’ultimo pogrom dell’Orissa, dove la morte attribuita ai cristiani di un leader estremista indù ha provocato l’assalto a un orfanatrofio, con una monaca arsa viva e un’altra stuprata. Anche se la polizia che resta a guardare è sempre un segnale inquietante.
Nel contempo, però, ci sono ben quattro Stati che hanno vietato il proselitismo cristiano con regolare voto dei rispettivi Parlamenti: il Rajastan, il Madhya Pradesh, l’Himachal Pradesh, e anche quel Tamil Nadu che ebbe un cristiano come suo primo Chief Minister. Mentre il Chhattisgarh, che pure abbiamo già visto governato da un cristiano, ha a sua volta varato una Legge sulla Libertà Religiosa che sottopone il cambio di fede a condizioni draconiane: chiedere il permesso a un giudice con 30 giorni di preavviso, e poi accettare il suo giudizio inappellabile, venendo se no puniti con multe e perfino col carcere. Naturalmente bisogna tener conto del fatto che l’India è un Paese grande e complesso, le cui particolarità e contraddizioni il sistema federale non fa che esasperare. La comunità islamica, ad esempio, è tradizionalmente alleata a quella cristiana nella resistenza all’integralismo indù, ma nel Kashmir a maggioranza islamica i cristiani sono a loro volta vittime della furia della guerriglia integralista. Il partito fondamentalista indù Bjp quando è all’opposizione fomenta spesso i pogrom contro le minoranze e nei governi locali fa adottare le leggi anti-conversioni, ma al governo nazionale oltre a mettere alla Difesa il cristiano Fernandes ha pure impostato una nuova politica filo-occidentale e filo-israeliana (peraltro poi continuata dal Congresso dopo l’avvicendamento al potere). Vari politicanti cristiani hanno avuto le mani in pasta nelle manifestazioni di violenza che ogni tanto trasformano l’India in una macelleria: su tutti, quello Jagdish Tytler più volte ministro e dirigente di punta del Congresso, accusato di essere stato l’organizzatore del pogrom che si scatenò contro i sikh nel 1984 dopo l’assassinio di Indira Gandhi, e in cui furono bestialmente massacrate oltre 3000 persone. Ma accanto a grandi sciovinisti della grande India come i vari Tytler e Fernandes, quest’ultimo pure promotore di una campagna anti Coca Cola, non è mancata una guerriglia separatista come quella del Nagaland, il cui grido di battaglia era: “Il Nagaland è per il Cristo!”.
Come l’India, anche la cristianità indiana è d’altronde variegata, attraverso almeno cinque strati di presenza. Il più antico, quello degli storici “Cristiani di San Tommaso” presenti da 2000 anni nel Kerala e nel resto dell’India del Sud: in passato talmente acculturati da aver accolto il sistema delle caste; e tradizionalmente anche organizzati in chiese e liturgie locali, anche se oggi in gran parte passati sotto varie forme alla cattolicità o all’anglicanesimo. Il secondo strato è quello del cattolicesimo di Goa, portato dalla colonizzazione portoghese nel XV secolo, e spesso imposto a colpi di roghi e di Inquisizione non solo contro gli indù, ma anche contro i cristiani locali. Terza e quarta ci sono poi le ondate missionarie rispettivamente cattolica e protestante inglese che sono venute nel XIX secolo, facendo proseliti soprattutto tra quei paria e quelle caste più basse che l’ortodossia induista condannava alla discriminazione. Infine la recente ondata missionaria dagli Stati Uniti, che ha puntato soprattutto alle popolazioni tribali, e che nel Nord-Est ha convertito i tre Stati ora a maggioranza cristiana. In particolare il Nagaland, che con il suo 90,2% di cristiani e il suo 75% di battisti è oggi la terra più battista del mondo: più ancora del Mississippi, col suo 52%.
Qualcuno sostiene che la differenza la fa appunto l’atteggiamento integrato dei “Cristiani di San Tommaso” e dei goanesi, che si considerano parte della società indiana, e a cui appartiene la gran parte dei vip citati: mentre sarebbe l’aggressivo proselitismo dei missionari a creare crisi di rigetto. Ma qua bisogna ricordare che è appunto il cristianesimo “aggressivo” del Nord-Est e dei popoli tribali che cresce, mentre l’altro affronta un declino demografico abbastanza simile a quello di cui sta sparendo il cristianesimo del Medio Oriente: a Goa, va ricordato, al momento dell’annessione all’India nel 1961 i cattolici erano oltre la metà della popolazione, e nel Kerala ancora vent’anni fa i cristiani oltrepassavano il 25%. Come dire: i cristiani si integrano e sono accettati, quando accettano di sparire… Appunto, si torna alla questione della bandiera nazionale. Pur senza dirlo apertamente, c’era negli autori della costituzione del 1947 l’idea che il cristianesimo, fede degli ex-colonizzatori inglesi, fosse un corpo estraneo. Da tollerare, ma senza considerarlo veramente parte della cultura nazionale.
Su tutto, c’è il 150esimo anniversario che l’anno scorso è stato celebrato dal Grande Ammutinamento, come lo chiamarono: la rivolta dei soldati della Compagnia delle Indie che fu a un passo dall’estromettere Londra dal Subcontinente con novant’anni di anticipo, ma fu poi repressa nel sangue. Emilio Salgari ambientò in quei frangenti il romanzo Le due tigri, Jules Verne immaginò che un leader della rivolta scampato alla repressione si fosse trasformato nel romantico Capitano Nemo, e entrambi ne accreditarono l’immagine risorgimentale tuttora prevalente nella storiografia indiana. Appena intaccata da quei marxisti che negli anni ’60 e ’70 vollero sottolinearne alcune motivazioni economiche, e confluente in quel più generale approccio terzomondista che vi celebra il più deciso sforzo fatto nel XIX secolo da un popolo colonizzato per scuotersi di dosso il giogo dell’imperialismo.
Proprio affascinato da questa visione lo storico scozzese residente in India William Dalrymple, che appunto è un noto terzomondista, si è tuffato in una vorticosa ricerca tra archivi in persiano e in urdu, lingue della corte Moghul. Ma dall’esame di oltre 20.000 documenti, in gran parte inesplorati dagli stessi studiosi indiani, ha fatto una scoperta che ha annunciato come clamorosa, anche se in fondo dimostra che non c’è mai nulla di più inedito del già noto. In fondo, lo sapevamo già tutti, che il Grande Ammutinamento era iniziato per un nuovo tipo di cartucce: che bisognava “aprire” portandosele ai denti, e che essendo spalmate con grasso bovino e suino violavano i tabù alimentari sia degli indù che dei musulmani. Darlymple si è limitato a spiegare che il Grande Ammutinamento fu religioso non solo nell’origine, ma anche nei suoi sviluppi. Una specie di jihad ante-litteram congiunto di indù e musulmani contro i cristiani, in cui gli europei convertiti all’islamismo venivano risparmiati, ma per i cristiani indigeni non c’era invece pietà. D’altra parte anche tra gli ufficiali inglesi imperava un’ideologia evangelico-fondamentalista da “Signore degli Eserciti” dell’Antico Testamento, responsabile a sua volta di atrocità tremende.
Certo, ammette Dalrymple nel suo libro (in italiano “L’assedio di Delhi”, Rizzoli), “si trattò di una guerra di religione molto strana, in cui un imperatore musulmano fu spinto a ribellarsi contro i suoi oppressori cristiani da un esercito ammutinato di Sepoys per la maggior parte indù, venuti di loro spontanea volontà (e all’inizio contro la sua) a chiedere al Moghul che consideravano il proprio legittimo sovrano la sua guida e la barakat musulmana”. Ed è “ancora più strano che una delle maggiori minacce alla coesione e all’unità delle nuove forze moghul sia stato l’arrivo di gruppi di jihadisti musulmani che finirono per costituire circa la metà dell’esercito ribelle a Delhi, e che quando i britannici contrattaccarono queste forze lo fecero reclutando contro i Moghul un nuovo esercito costituito in gran parte da irregolari musulmani pathan e panjabi”. Fu proprio la discordia tra indù e musulmani accesa dall’estremismo jihadista, assieme all’assoluta incapacità degli insorti a mantenere l’ordine nelle aree sotto il loro controllo, a perdere infine la rivolta. Ma prima fra i jihadisti fecero in tempo ad apparire kamikaze suicidi. Non i primi nella storia dell’Islam, visto già nell’XI secolo il precedente di quegli “Assassini” di cui parla anche Marco Polo. Ma nelle carte ci sono chiare e specifiche referenze a un reggimento di jihadisti che erano arrivati da Delhi a Gwalior ed erano descritti come guerrieri della fede suicidi. Insomma, Bin Laden e il Mullah Omar vengono dalla Rivolta dei Sepoys. Anche perché fu appunto tra gli scampati più estremisti della rivolta che nacque quel movimento deobandi che ha fatto da incubatrice ai Taleban e ad Al-Qaida. Mentre l’India moderna e laica di Gandhi e Nehru nasce invece dall’élite modernizzante allevata col nuovo sistema educativo introdotto dopo il fallimento della rivolta del 1857.
In conclusione, è un ambiguo mito fondante dai risvolti anti-cristiani quello che continua a ingombrare l’identità indiana. E che continuerà a provocare guai, fin quando il nodo non sarà stato sciolto con decisione.