L’omofobia era la foglia di fico per imporre il “gender fluid” (di G. Quagliariello)

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

L’omofobia era la foglia di fico per imporre il “gender fluid” (di G. Quagliariello)

L’omofobia era la foglia di fico per imporre il “gender fluid” (di G. Quagliariello)

27 Ottobre 2021

Pubblichiamo l’intervento pronunciato in Senato da Gaetano Quagliariello nella discussione sul ddl Zan, che ha terminato a Palazzo Madama la sua corsa.

Signor Presidente, colleghi Senatori,

potremmo occupare sessioni intere dei lavori di quest’Aula per argomentare il fatto che questo dibattito possa apparire un po’ lunare e comunque intempestivo alla luce delle difficoltà che il Paese sta attraversando; divisivo in un momento nel quale forze politiche così eterogenee sono impegnate in uno sforzo di unità nazionale; ultroneo in quanto il nostro ordinamento già prevede strumenti di tutela e sanzione a fronte di comportamenti lesivi di diritti altrui.

Ma non lo faremo.

Potremmo spiegare come, da liberali, siamo contro la segmentazione delle persone in categorie. Perché ogni individuo merita protezione in quanto tale. Perché continuare a procedere per “leggi speciali” non fa altro che creare ghettizzazione e suggerire “diversità”. Perché applicare princìpi validi per tutti di volta in volta a questa o a quella tipologia di persone, magari usandone qualcuna strumentalmente come foglia di fico, farà sì che ci sarà sempre qualcuno che si sentirà escluso.

Ma non lo faremo e, di fronte alla paventata esigenza di introdurre una tutela ulteriore rispetto alla violenza e alla discriminazione, siamo talmente pronti a non tirarci indietro da aver promosso come centrodestra un disegno di legge che si prefigge esattamente questo scopo, riprendendo lo schema di una proposta del collega deputato Scalfarotto sottoscritta anche dall’onorevole Zan, con il pregio aggiuntivo di non agganciarsi alla legge Mancino e dunque di non correre neanche il rischio di scivolare nel campo del reato di opinione.

Sgomberato dunque il campo dalla pur comprensibile polemica sulla reale impellenza di questo provvedimento – della quale, sia detto per inciso, forse nemmeno i suoi sostenitori sono davvero persuasi visto che hanno impiegato mesi a recedere dalla linea “o il testo così com’è o morte”… Sgomberato il campo, dicevo, e ribadita la disponibilità ad approvare in un minuto una legge contro violenza e discriminazione, soffermiamoci su alcune delle tante ragioni per le quali il testo al nostro esame non va, e su un dato culturale di fondo.

Tanto per cominciare: questa non è una legge che introduce nuovi diritti come una certa narrazione vorrebbe dare a intendere. Questa è una legge che introduce nuove sanzioni penali. Non è un reato fare ciò – scusate il gioco di parole -, ma dobbiamo essere chiari sul punto. Gli unici diritti che da una finestra spalancata entrerebbero nel nostro ordinamento sono quelli surrettiziamente connessi alla definizione di identità di genere, e fra breve dirò qualcosa in proposito.

Quanto alle sanzioni penali, per come il testo è formulato esse non si limitano a rafforzare gli strumenti di contrasto alla violenza, ma investono appieno il campo delle opinioni trascinandole in un campo suscettibile delle più disparate interpretazioni giurisprudenziali. E qui entriamo in un paradosso.

Chi infatti non crede al pensiero unico ritiene pienamente legittimo il pluralismo culturale. Sicché in tema di opinioni è lecito anche che vi sia chi ritiene di doverle limitare, chi ambisca a che la legislazione del XXI secolo riproponga sostanzialmente l’impianto del codice Rocco. Per la stessa ragione, però, dovrebbe anche essere lecito che da liberali la si pensi in modo differente: che la violenza debba essere perseguita ma le opinioni anche se urticanti, antipatiche, inopportune, debbano essere tollerate. Dovrebbe essere lecito, perciò, avversare un impianto normativo che in tema di opinioni si rifà, diciamo così, più a Rocco che a Voltaire.

Decisamente più singolare è il fatto che a spingere per la “soluzione Rocco” sia una parte importante della sinistra. Proprio così: al netto dello scontro fra gli schieramenti canonici, che nonostante la parentesi di unità nazionale restano contrapposti, è sempre più evidente come questa vicenda interroghi soprattutto la sinistra. Per carità, nulla di del tutto inedito: fin dal 1921 quest’ultima è stata solcata al proprio interno da una dicotomia tra un’ala più liberale e un’ala autoritaria. E lo stesso accade a destra, con la differenza che a destra, almeno in questa circostanza, il problema del rapporto tra autoritarismo e libertà è assorbito da un approccio di pragmatico buon senso che in qualche modo lo sterilizza.

A sinistra, invece, la dicotomia si sta riproponendo con prepotenza in occasione di questo dibattito. Ma la novità è che ad orientarsi verso l’impostazione autoritaria, che vorrebbe risolvere la partita antropologica e ideale utilizzando il codice penale, è quel partito radicale di massa che da tempo, inverando la profezia di Augusto Del Noce, incarna la sinistra “istituzionale” e “ufficiale”, mentre le più significative dissidenze vengono dall’ala più identitaria e a sinistra della sinistra.

Colleghi, non vogliamo strumentalizzare nessuno ma suscitare un supplemento di riflessione. Se non riuscite ad essere persuasi dagli argomenti di vostri avversari provate almeno ad ascoltare le perplessità di personaggi di varia estrazione accomunati dal non essere certo annoverabili come pericolosi reazionari: Marina Terragni, Stefano Fassina, Cristina Comencini, Mario Capanna, Cristina Gramolini, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Turco, Emma Fattorini, Beppe Vacca, Silvia Costa, Teresa Armato, e potrei continuare.

Arrivo al punto dolente, e ci arrivo raccontando un aneddoto. Quando la nuova segreteria del Partito Democratico ha promosso l’avvicendamento al vertice del gruppo parlamentare al Senato per affidarla a un esponente di sesso femminile, mi sono permesso una battuta con il capogruppo uscente, il collega Marcucci. “Andrea – gli ho detto -, e che problema c’è? Invoca la legge Zan, di’ che ti autopercepisci donna e il problema è risolto”.

Scherzavo, ovviamente. Ma neanche troppo. All’amico Enrico Letta ho detto pubblicamente che la battaglia per la “parità di genere” e quella per l’”identità di genere”, se quest’ultima è intesa nel senso della definizione di cui al ddl Zan, insieme non possono stare. Si contraddicono frontalmente. Senza tirare in ballo altri colleghi, facciamo un altro esempio: cosa accadrebbe se una donna assurta a un determinato ruolo proprio in virtù del proprio essere donna si svegliasse una mattina percependosi uomo? Si ricomincerebbe da capo la conta sul pallottoliere rosa e azzurro fino al prossimo cambio di percezione? O si dovrebbe ammettere che al di là delle bandierine ideologiche che si vorrebbero tramutare in testi di legge, l’identità è qualcosa di consustanziale alla persona e impossibile da scindere del tutto da un ancoraggio alla biologia e al diritto naturale?

Colleghi, non mi improvviso per onestà un femminista d’antan e non sono nemmeno un fanatico delle quote se non come meccanismo provvisorio per innescare processi spontanei, ma come non vedere che introdurre il diritto all’autopercezione con il pretesto della lotta alla violenza rischia di vanificare decenni di lotte femministe? Come non vedere ciò che sta accadendo dove l’identità di genere è già una realtà, con atleti con corpi da uomo che partecipano alle gare femminili, con detenuti maschi che ottengono il trasferimento nel braccio rosa del carcere? E come non vedere che il concetto di fluidità di genere mette in discussione lo stesso concetto di omosessualità, che ha un senso fintantoché il sesso di appartenenza è un parametro non opinabile?

In discussione non c’è il ripudio della violenza, sul quale possiamo accordarci in un minuto. E non c’è nemmeno la facoltà di compiere nella propria vita personale scelte libere e il diritto a non subire per questo discriminazioni. Ci mancherebbe.

La divisione, al fondo, è tra chi ritiene che la libera scelta della persona muova da un dato di realtà che si è liberi di contraddire con i propri comportamenti ma non di negare nella sua esistenza, e chi invece considera il dato biologico qualcosa di totalmente relativo e l’identità sessuale una scelta esclusivamente culturale.

Colleghi, abbiamo a portata di mano un accordo pressoché unanime. Se, come tutti a parole sostengono, l’obiettivo è perseguire violenze e discriminazioni, la legge è fatta. Ostinarsi su questo testo significa che queste discriminazioni e queste violenze sono solo la scusa per introdurre il gender nel nostro ordinamento.

Grazie.