
L’onda lunga degli anni di Reagan sulle paure (e le speranze) degli americani

24 Ottobre 2010
Tornano in questi giorni, al cinema e in libreria, due personaggi chiave ai quali è stato affidato il ritratto dell’America ai tempi di Ronald Reagan. Il primo è l’indimenticabile Gordon Gekko, protagonista invecchiato di “Wall Street. Il denaro non dorme mai” di Oliver Stone. L’altro è Clay , protagonista invecchiato anche lui, pur se più giovane di Gekko, di “Imperial Bedrooms” di Bret Easton Ellis (lo pubblica Einaudi la prossima settimana). Il film di Oliver Stone “Wall Street” uscì nel 1987, mentre il romanzo di esordio del giovanissimo Ellis (aveva ventuno anni), “Meno di zero”, era apparso due anni prima.
Andiamo con ordine. Partiamo dal Gekko di “Wall Street”, massima espressione antropologica e mediatica della rapacità dell’era reaganiana (un luogo comune tutto da dimostrare) si è fatto otto anni di galera. Il film di Stone si apre nel 2001. È una bella mattina di sole e dal penitenziario si apprestano ad uscire alcuni detenuti. Le formalità di rito prevedono la riconsegna al prigioniero degli oggetti sequestrati al momento dell’arresto. Il documento di identità, un pesante orologio d’oro, un anello, un fermasoldi senza un dollaro, un telefono cellulare di prima generazione (oggi solo a vederlo fa ridere, ma all’epoca era il massimo della tecnologia). All’uscita nessuno attende Gekko. È un uomo solo, distrutto, al quale hanno portato via ogni cosa, invecchiato (i segni del tempo sono ben percepibile sul volto emaciato, rugoso e coperto dalla barba bianca di Michael Douglas). Ma ci mette poco il vecchio leone, ridotto ad agnello, a ritornare predatore.
Un salto rapido e siamo al 2008. Gekko si è dato alla scrittura. Tiene gremite conferenze negli atenei. Autografa copie delle sue memorie di pescecane (“L’avidità è buona?”) e parla un linguaggio semplice, aggressivo, che arriva diritto al cuore delle dinamiche economiche. Wall Street sta intanto oscillando e scricchiolando. Crepe paurose si sono aperte. Una parola circola con insistenza: bolla. La bolla della speculazione, dei titoli tossici, dei derivati. Insomma il tempio del potere economico sta per fare boom. Un altro 1929 è vicino vicino, basta solo svoltare l’angolo della prima strada. Il gioco si fa duro, spietato. Non tutti sono disposti però ad affondare con la barca che sta facendo acqua da tutte le parti. Nella catastrofe finale in molti annegheranno (i risparmiatori, i disoccupati, milioni di cittadini impoveriti) e qualcuno scapperà con la cassa. Ma c’è Gekko. Vent’anni fa le sue camice rigate con i colli bianchi, le bretelle, i gemelli d’oro massiccio, i capelli tirati indietro dalla profumata gelatina, il linguaggio diretto e arrogante, i mille trucchi delle scatole cinesi, erano la quintessenza del male di Wall Street secondo Oliver Stone. Poi l’ibernazione della prigione l’ha trasformato in un souvenir d’epoca. Mentre rifletteva dietro le sbarre un branco di lupi affamati ha scalato i piani alti del potere finanziario. Una generazione di operatori (rapinatori) privi di scrupoli, avidi di danaro e potere, indaffarati a giocare con i fondi sovrani fluttuanti nel mare della globalizzazione finanziaria, ha prima illuso il mondo dei proprietari di immobili, possessori di azioni e investitoti di fondi ultrasicuri, trascina doli poi con la testa sott’acqua nel mare della disperazione.
Gekko è stato il cuore nero dell’epoca di Ronald Reagan (al potere dal 1980 al 1988), che ha ridisegnato i rapporti industriali e finanziari dell’America. La filosofia economica del presidente-attore servì da base a Oliver Stone per costruite su misura, distorcendola e criminalizzandola, la filosofia di Gordon Gekko. Ma era un’impressione sbagliata. E a vent’anni di distanza il regista trasforma il suo vecchio personaggio in due direzioni. La prima è familiare. Gekko è un padre (ha una figlia) impegnato a porre rimedio agli errori commessi. Inoltre Gekko mette stavolta a disposizione il proprio talento per distruggere il cattivo (il Gekko di vent’anni prima).
Il finale di “Wall Street. Il danaro non dorme mai” ha qualcosa di incredibile. È una riunione allegra, spensierata, capace di ricomporre ogni asperità, separazione, lacerazione, contraddizione. Ma attenzione: dal quadretto volano in aria leggere, bolle e bolle e bolle. C’è poco da stare allegri, dunque. A quando la prossima esplosione? Così come John Ford sapeva misurasi con la Storia per rappresentare la perenne lotta del bene e del male, alla stessa maniera il cinema di Oliver Stone si lancia perennemente all’assalto delle forze luciferine che dominano l’esistenza. La variante è che Stone non ha mai saputo trovare un giusto equilibrio. Vent’anni fa Gekko era il “maligno”: oggi viene arruolato nell’esercito dei buoni.
Veniamo adesso a “Imperial Bedrooms” di Bret Easton Ellis. Il giovane narratore americano da molti è considerato un talento autentico, da altri un mediocre e cinico costruttore di storie di successo prive di creatività. Nel suo romanzo “Lunar Park” (2005) un personaggio che si chiama Bret Easton Ellis dice che proprio Ellis debba essere considerato il più grande scrittore americano vivente al di sotto dei quaranta anni. Recentemente Ellis ha pubblicato su Twitter un sereno compiacimento per la scomparsa dello scrittore Salinger. Ma sempre di recente ha anche dichiarato che considera “Freedom” di Jonathan Franzen il miglior romanzo americano che ha letto negli ultimi venti anni. In “Meno di zero” Ellis affidava al suo Clay il compito di rappresentare il frutto di una generazione ricca quanto malata, carica di sesso, droga, pornografia e violenza. Adesso il Clay di “Imperial Bedrooms” ha mezzo secolo di più, ma il contesto che gli gira intorno è cambiato pochissimo. Il percorso è sempre lo stesso: per la vacanze di Natale il protagonista si sposta da New York a Los Angeles. E ricomincia la solita giostra. Tanto tempo è passato, ma il mondo di ieri somiglia tremendamente al mondo di oggi. In più c’è solo un sovraccarico di paranoia e di droghe sempre più potenti, di ansiolitici e psicofarmaci sempre più potenti.
Lo stile di scrittura di Ellis è davvero inconfondibile, forse il più chiaro esempio del postmodernismo letterario, impegnato ad affettare sottilmente, in mille pezzi, la carne sanguinolenta della desocializzazione, che raggiunge il vertice nell’orrore di “American Psycho” (1991). L’odore del male impregna inconfondibilmente tutte le pagine del nuovo romanzo di Ellis. L’esistenza è un incubo e al vizio e alla perversione non c’è rimedio. Il mondo che si agita sulla scena di “Imperial Bedrooms” è attraente, come attraenti sono i corpi che popolano le feste del “luna park” di moda, musica, finanza e spettacolo. Questo nuovo romanzo di Ellis somiglia in maniera speculare ad alcuni recenti film di David Lynch come “Mulholland Drive”, una realtà inquietante, cupa, mostruosa, e al tempo stesso difficile da capire. Una racconto fondato sulla paura. Del resto le prime parole di “Meno di zero” erano: «La gente ha paura».
E questa paura dagli anni di Reagan è arrivata sino ad oggi. Sull’esistenza pende una grave minaccia. Nel bene o nel male la figura di Ronald Reagan ha dominato gli anni ottanta. Il suo mito, impasto di conservatorismo politico e pragmatismo sociale, è servito per ridurre l’inflazione, rilanciare l’economia, allontanare lo scontro nucleare e al tempo stesso vedere la caduta fragorosa del comunismo. Gli anni di Reagan vedono innalzarsi la stella di Bill Gates e il diffondersi del personal computer. Sono l’epoca della rivoluzione informatica, della globalizzazione economica, della ristrutturazione del sistema capitalistico americano, a cominciare da Hollywood, del trionfo del postmodernismo (nel mondo universitario e nell’industria culturale) e dell’affermarsi a livello di massa di un modello culturale e valoriale veicolato dall’emittente MTV. Con la presidenza Reagan si esce definitivamente dalla guerra fredda. Reagan riceve in eredità un fardello pesantissimo, stracolmo di infezioni contratte negli anni settanta: le ferita del Vietnam, lo scandalo del Watergate, stagflazione, inflazione e recessione economica acuita dalla crisi petrolifera.
La recessione, che tra il 1974 e il 1975 raggiunge la vetta più dura, riporta l’orologio degli americani ai tempi della Grande Depressione degli anni trenta. Basta solo ricordare un dato: nella primavera del 1975 i disoccupati sono il 9%, come nel 1941. A questo clima di decomposizione sociale si debbono aggiungere le delusioni provocate dalla presidenza del democratico Jimmy Carter. Nel dicembre del 1979 i sovietici invadono l’Afghanistan. La carriera politica di Carter può considerarsi conclusa. Infatti le elezioni che si tengono un anno dopo, assegnano a Reagan una devastante vittoria, con il 51% contro il 41%, con ben 44 Stati andati ai repubblicani. Un massacro politico per i democratici. Con Reagan alla guida dell’impero americano assistiamo alla “Reaganomics”, politica fiscale anti-keynesiana, vicina al monetarismo di Milton Friedman. Bloccata l’inflazione, la crescita economica decolla vertiginosamente. Il segnale che si sta cambiando registro arriva nel braccio di ferro con i sindacati dei controllori di volo, tutti dipendenti federali. Reagan li licenzia in tronco. È un atto di significativo effetto mediatico. I critici della sua politica parlano di assalto frontale al “welfare state” e di ritorno al “darwinismo sociale”. Di fatto la sue scelte rimettono in moto l’economia, spingono il consumismo e aprono una consistente deregulation del sistema. Wall Street è il motore della “Reaganomics”.
Anche in politica estera il successo di Reagan è indiscutibile. Lo storico marxista Eric J. Hobsbawn, così spiega la fine della guerra fredda: «finì quando una o tutte e due le superpotenze riconobbero la sinistra assurdità della corsa alle armi nucleari e quando una o entrambe accettarono di credere nel sincero desiderio dell’altra di porvi fine» (“Il Secolo breve”, Rizzoli, 1995). È una scemenza. In realtà la guerra fredda fu vinta da Reagan con una politica estera aggressiva e con una politica militare basata sui nuovi armamenti. Nell’autunno del 1982 quasi un milione di persone si ritrovano al Central Park, a New York, per protestare contro la politica del riarmo di Reagan. Alla manifestazione ci sono l’attrice Meryl Streep, il cantante Bruce Spirngsteeng, lo studioso George F. Kennan e la futura segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright. La televisione trasmette, prodotto dalla ABC, il film “The Day After” (1983), suscitando grandi emozioni. Reagan, per molti, sta trascinando l’America nel baratro nucleare. Ma la decisione di montare in Europa i missili Pershing II, utilizzando il clima favorevole dovuto alla presenza della signora Thatcher, di Kohl e di Mitterand (pragmatico come sempre, è meno ostile di quanto un socialista potrebbe essere), si rivelano, insieme allo “scudo spaziale” e alle “guerre stellari”, le migliori armi della “dottrina Reagan” da opporre al comunismo. L’appoggio alla resistenza in Afghanistan, l’aiuto alla Polonia, l’ostilità in America Latina contro il regime marxista del Nicaragua e l’invasione di Grenada, fanno il resto.
La società americana, nel decennio dominato da Reagan, non è solo un campo fiorito. Aumentano gli homeless, la disgregazione sociale cresce, come crescono le classi disagiate nei ghetti della grandi città e le distanze fra ceti sociali. Inoltre c’è il flagello dell’AIDS. Le invettive sulla punizione divina di Jerry Falwell, leader della Moral Majority (convinta sostenitrice di Reagan), svaniscono quando muore per il virus Rock Hudson, nel 1985: la disgrazia non risparmia nessuno. A livello culturale gli anni ottanta vedono il trionfo del postmodernismo relativista e l’affermazione di una “cultura terapeutica”, spaziante dallo psicologismo alla New Age. Sono anche gli anni del materialismo sociale, incarnato dalle serie “Dallas” e “Dynasty”. Inoltre un nuovo soggetto si affaccia alla ribalta: gli “yuppies”, ritratti nei romanzi di Jay McInerney “Le mille luci di New York” (1984) e di Bret Easton Ellis, ai quali fa da sfondo il coloratissimo mondo ad uso e consumo della “MTV generation”.
Tirando le somme, gli anni ottanta sembrerebbero il regno del conservatorismo propagandato da Reagan. Invece non lo sono affatto. Nel decennio reaganiano si verifica la rottura dell’ordine borghese e la vittoria della cultura radicale, causa dell’inarrestabile processo di “desocializzazione”. Abbiamo così una nazione e due culture. La prima borghese, ormai minoritaria; l’altra radicale, sempre più forte. Gli anni di Reagan registrano la vittoria del progressismo sociale, dell’etica postmoderna, e della riduzione alla dissidenza della cultura borghese, di cui lo stesso Reagan era stato l’incarnazione. Sarà Bill Clinton, nel decennio successivo, a cavalcare questa onda lunga. I conservatori più estremi toglieranno la fiducia a Bush padre, facendolo perdere al secondo mandato contro Clinton. Ritenendolo incapace di contrastare la dilagante immoralità, in realtà se la prenderanno con l’uomo sbagliato. Era stato Reagan ad aprire le porte al nemico.
L’ex attore aveva raddrizzato la schiena all’America. L’aveva riportata alla conquista del mondo. Ma non si era accorto dell’insidia rappresentata dalla cultura radicale che, nella massima lucentezza del conservatorismo si era insinuata nel tessuto sociale americano, trasformandolo prepotentemente. Per concludere Gordon Gekko e Clay non sono le mele bellissime piazzate in bella vista degli anni di Reagan, che hanno fatto marcire nel ventennio successivo l’intero cesto. Per capire da dove vengono questi due campioni del reaganismo bisogna gettare lo sguardo indietro nel tempo. Ma è un‘altra storia.