Luci e ombre sul ruolo della Chiesa nei terribili anni di piombo
22 Giugno 2008
Chiesa e anni di piombo, militanti cattolici e rivoluzionari, sacerdoti e sistema carcerario, mondo politico e gerarchie ecclesiastiche. Il libro di Anna Chiara Valle si muove su differenti piani e, anche se a volte in maniera un po’ confusa e poco lineare, offre al lettore uno spaccato di riflessioni stimolanti su una fase lacerante della nostra recente storia repubblicana.
Una premessa è d’obbligo. L’autrice conduce il lettore lungo un itinerario che simbolicamente si snoda a partire dagli anni della contestazione studentesca, e che vede un momento simbolicamente decisivo nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, fino ad un altro momento fortemente simbolico, il giugno 1986, in cui si assiste all’applicazione del disegno di legge Martinazzoli sulla fine della carcerazione speciale. Le porte delle carceri si aprono e centinaia di aderenti alla lotta armata oramai dissociatisi dalla loro esperienza iniziano una nuova vita, a volte lontani dai riflettori dei media, altre, forse troppe, al centro del dibattito politico-giornalistico nel tentativo di avallare una loro versione dei fatti. È giusto e doveroso ricordare, innanzitutto per ragioni di rispetto nei confronti di tutte le centinaia di famiglie che hanno perso i loro cari perché un manipolo di giovani offuscati dall’ideologia aveva arbitrariamente deciso di cambiare la società utilizzando la lotta armata, che questo percorso è ricco, al momento, solo di impressioni, di punti di vista e visioni spesso contrapposte. Il lavoro di scavo e ricerca è solo agli inizi. Il ricordo dei protagonisti è di certo utile, ma scrivere la storia degli anni di piombo, anche se con un taglio particolare come accade nel libro di Valle, quasi esclusivamente basandosi su testimonianze e ricordi dei protagonisti non può che offrire un quadro parziale e limitato, utile, ma non esauriente.
Fatte queste premesse nel libro ci sono tre grandi punti di riflessione. Il primo, l’unico peraltro attorno al quale la grande stampa nazionale ha insistito recensendo il libro di Valle, riguarda il caso Moro e il ruolo svolto (o meglio non svolto secondo l’autrice) dalle gerarchie ecclesiastiche in occasione del suo tragico sequestro. Su questo argomento il punto di vista di Valle non si discosta dalla vulgata giornalistica classica del «Moro poteva essere salvato». In questo caso specifico l’assunto si completa poi con la frase «anche
Valle descrive con dovizia di particolari i tentativi fatti da una parte non minoritaria delle gerarchie ecclesiastiche, citando tra gli altri i vescovi di Livorno, mons. Ablondi, quello ausiliario di Roma, mons. Riva e quello di Ivrea, mons. Bettazzi e la loro richiesta di offrirsi come prigionieri in cambio della liberazione di Moro, con un obiettivo ben preciso. Il fine ultimo è arrivare a dimostrare che una congiura, orchestrata dal cardinal Siri (strenuo oppositore di Moro fin dagli anni dell’apertura ai socialisti) e dal sostituto alla Segreteria di Stato mons. Caprio, entrambi in stretto contatto con i vertici della Dc (in particolare Andreotti e Cossiga), è stata orchestrata per non far rientrare dal carcere del popolo Aldo Moro. Il punto più alto della «congiura» nei confronti di Moro consisterebbe, in questa lettura, nella presunta modifica apportata alla lettera aperta ai brigatisti del pontefice, con quel richiamo a liberare lo statista democristiano «senza condizioni», attribuito alla volontà di Andreotti e aggiunto a posteriori nel testo di Paolo VI da ambienti della Segreteria di Stato (Casaroli, Caprio o lo stesso Segretario di Stato Villot?). Servirebbe davvero poco aggiungere materiale alle supposizioni non suffragate da documentazione certa, meglio allora limitarsi a due riflessioni dettate dal buon senso. Che tipo di utilità giornalistica ha mescolare le posizioni di sacerdoti o anche di vescovi che operano «sul campo» come Turoldo o lo stesso Bettazzi, con quelle dei più alti vertici dell’istituzione ecclesiastica, con incarichi istituzionali, limiti ben precisi e responsabilità che vanno oltre la personale carità cristiana di fronte alle sofferenze che sta vivendo Aldo Moro? Ma ancora, che senso ha far parlare l’ex-brigatista Franco Bonisoli (come avviene a p. 80) e sentirlo ammettere, a trent’anni di distanza, che le Brigate Rosse avrebbero liberato Moro a patto che giungesse la liberazione di almeno un prigioniero politico («l’uccisione di Moro non era decisa dall’inizio. […] Noi volevamo che
Una lettura così politicamente debole del «caso Moro» trova nuovo materiale polemico nel secondo capitolo, quando viene descritto il rapimento e la fine incruenta del sequestro del magistrato genovese Sossi. Il sequestro Sossi, avvenuto quattro anni prima, fatto non trascurabile, viene considerato dall’autrice come caso nel quale la mediazione da parte delle autorità politiche è avvenuta con successo. Corollario della riflessione: con Sossi sì, perché con Moro no? Accostare il rapimento di un giudice, seppur di primo piano, con quello del Presidente del partito di maggioranza relativa, protagonista della vita politica del Paese da un trentennio e nella congiuntura uomo di punta di un percorso travagliato di accesso a posizioni di governo del maggior partito di opposizione significa sminuire il valore politico del sequestro Moro. Le lettere dal carcere del leader democristiano sono senza dubbio la lucida analisi di un grande statista che ha compreso il suo triste destino. Proprio da queste lettere e dalla disperazione che vi traspare bisognerebbe forse ripartire per prendere atto che lo stesso Moro aveva compreso quanto i margini di trattativa fossero esigui, per non dire nulli. Ma non perché, come afferma Valle, «questo sangue deve essere versato». Perché lo Stato, che ha già perso la prima battaglia, non riuscendo a difendere un suo servitore di così alto livello come Moro, non può permettersi di perdere l’intera guerra, scendendo a patti con un’organizzazione terroristica che, preso atto di un sostegno popolare nullo all’indomani della strage di via Fani, aveva probabilmente già firmato la sua condanna a morte.
Di maggiore interesse, e come spesso accade trascurato dai commenti e dalle analisi dei media, è il secondo tema affrontato dal libro di Valle, quello che riguarda il nesso tra militanza cattolica giovanile nel corso degli anni Sessanta-Settanta e violenza politica. Da questo punto di vista non mancano le interessanti sollecitazioni intellettuali e il richiamo ad un filone di analisi storico-politica ancora non sufficientemente esplorato. La comune formazione e militanza cattolica giovanile di alcuni dei fondatori delle Brigate Rosse (basti citare Curcio, Cagol e Semeria, per non parlare di Toni Negri, dirigente della Giac negli anni Cinquanta o della tragica scelta di Marco Donat Cattin, figlio del più volte ministro Dc Carlo) impone infatti un confronto serrato con alcuni miti che nell’epoca attraversarono il pensiero politico del cosiddetto cattolicesimo democratico militante. Ecco allora il terzomondismo cattolico e la figura del guerrigliero come soluzione da opporre a tutte le ingiustizie del mondo. Ma soprattutto, e questo emerge in maniera lampante nelle lettere di Mara Cagol alla famiglia nella fase di passaggio alla clandestinità e alla lotta armata, il nesso tra «radicalità della lotta armata equiparata alla radicalità con la quale il buon cristiano deve porsi nei confronti della vita sociale». Senza voler entrare in un confronto sui possibili punti di contatto teologico-politici tra radicalismo rivoluzionario e radicalismo del pensiero cattolico, il nesso concreto tra riflessione poi sfociata nella decisione di passare alla lotta armata e una certa analisi dei mali dell’epoca propria di ambienti cattolici.
Proprio questo dato apre il discorso al terzo ed ultimo elemento di interesse del libro di Valle, quello che riguarda il ruolo svolto dalla Chiesa italiana nel complicato e molto spesso contraddittorio percorso di uscita dalla fase degli anni di piombo. Valle sottolinea in particolare due ambiti di azione: quello teso ad instillare nella società italiana profondamente lacerata dallo stillicidio di esecuzioni ad opera delle principali sigle del terrorismo (in grande maggioranza, non dimentichiamolo, rosso) la nozione di perdono. E in secondo luogo l’altrettanto decisivo impegno delle gerarchie ecclesiastiche per rompere l’isolamento tra sistema carcerario e società, con l’obiettivo finale di reinserire, da un punto di vista culturale prima ancora che materiale, il maggior numero possibile di ex-terroristi nel Paese. È così descritto lo sforzo portato avanti dai cappellani delle carceri di Milano, Torino, Nuoro per arrivare ad un utilizzo più mitigato della carcerazione speciale, ma anche la riflessione di altissimo livello condotta dai vertici ecclesiastici, basti pensare al cardinal Martini a Milano o al cardinal Poletti a Roma. Perlomeno a partire dalla metà degli anni Settanta, e di certo per un decennio,
Su un punto solo questa visione di una Chiesa che ancora una volta, come all’uscita dalla Seconda guerra mondiale, prende per mano il Paese, svolge un ruolo decisivo di supplenza politica e contribuisce (o meglio cerca di contribuire) a riconciliarlo con una delle sue più tragiche ferite, cela un punto contraddittorio. Padre Camillo De Piaz, nelle ultime pagine del libro di Valle, parlando degli ex terroristi si riferisce a loro affermando: «sono impegnati nel sociale, tesi a ridare alla società, a inseguire, su altre strade certo più consone, quel anelito di giustizia che fortemente avevano cercato con la violenza» (p. 245).
Ancora il mito della giusta analisi, ma dello strumento sbagliato per metterla in pratica? Senza nulla togliere al ruolo fondamentale svolto dalla Chiesa per cercare di riconciliare con se stesso un Paese ferito, il nuovo punto di partenza forse dovrebbe essere quello di affermare che assieme agli strumenti, certamente sbagliati, erano sbagliate anche molte diagnosi (sulla necessità di portare al crollo il sistema capitalistico, sul radicalismo sociale, sulla centralità dello scontro di classe) e ammettere che le braccia che hanno impugnato i fucili erano guidate da menti che avevano una visione profondamente distorta delle dinamiche socio-politiche dell’epoca. Condannare il metodo e salvare l’analisi sarebbe fare un torto alle tante vittime di quegli anni, ma soprattutto, da un punto di vista politico, riaprire un contenzioso che ad inizio XXI secolo sembra oramai archiviato: quello che ha visto trionfare definitivamente ed universalmente le ragioni del riformismo su quelle del radicalismo.
A.C. Valle, Parole, opere e omissioni.