L’UE, l’Ungheria, la Polonia e lo Stato di diritto

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L’UE, l’Ungheria, la Polonia e lo Stato di diritto

23 Novembre 2020

Se il braccio di ferro tra UE da un lato e Ungheria e Polonia dall’altro continua poiché la prima non intende erogare i fondi spettanti alle seconde se queste ultime non si orientano in base dettami comunitari sullo Stato di diritto, si può approfittare di un tale lasso di tempo per comprendere effettivamente cosa intendere con la formula “Stato di diritto”, poiché non è così evidente e scontato che l’accezione con cui lo si intenda da parte delle istituzioni comunitarie risponda effettivamente alla sua vera essenza.

Certamente il dato storico conta e pesa: l’UE è nata sul territorio e sulla civiltà dell’Europa come entità culturale, cioè quella entità che è stata la culla del diritto e anche dello Stato di diritto; durante la guerra fredda, subito dopo il secondo conflitto mondiale, si è costituita come insieme di “agenzie” di libero scambio in opposizione allo statalismo del blocco del Patto di Varsavia; infine, si è espansa ricomprendendo molti di quei Paesi che per quasi un secolo hanno vissuto – come la Germania divisa in due dal muro di Berlino – al di là della cortina di ferro sotto il giogo del totalitarismo sovietico: come potrebbe dubitarsi, dunque, della integrità della concezione dello Stato di diritto dell’UE?

A ben guardare, però, se è vero come è vero che i Paesi dell’Europa occidentale non hanno avuto modo di sperimentare direttamente il regime sovietico, “chiusi fuori” dalla cortina di ferro, non è forse altrettanto vero che proprio i Paesi dell’Europa orientale, dopo 70 lunghissimi anni di dominio totalitario sovietico, sono i più consci di ciò che rappresenta un sistema totalitario come antitesi dello Stato di diritto?

Del resto, la lista di scrittori, intellettuali, sacerdoti, scienziati dissidenti è lunga come gli anni di quel regime sovietico a cui si sono opposti personaggi come Gustav Herling, Adam Michnik, Lech Walesa in Polonia, Thomas Molnar, Sandor Marai, Arthur Koestler in Ungheria.

Tuttavia, oltre il dato storico, due domande fondamentali s’impongono all’attenzione: 1) cosa è lo Stato di diritto? 2) Ciò che hanno in mente le istituzioni europee è davvero lo Stato di diritto?

Alla prima domanda, sintetizzando estremamente per quanto complessa essa sia, si può rispondere affermando che lo Stato di diritto è quella forma di Stato in cui il potere non soltanto è limitato, anche e specialmente in funzione della tutela dei diritti fondamentali della persona, ma anche e soprattutto è lo Stato che si sottomette al diritto riconoscendo i propri stessi limiti.

Nello Stato di diritto, in sostanza, non soltanto il potere è limitato, ma occorre altresì – da parte dei singoli cittadini, delle classi dirigenti, della politica, delle istituzioni – l’acquisizione della consapevolezza – sia pure sommaria – sia intorno alla natura del potere funzionalmente preordinato alla tutela della persona umana, sia soprattutto in merito alla sua limitazione.

Nello Stato di diritto, insomma, il diritto è sopra lo Stato, proprio perché il potere dello Stato non è assoluto, cioè non è svincolato da norme e principi ad esso anteriori.

Proprio per questo un autentico Stato di diritto non può incarnare un interesse specifico o una ideologia particolare, senza rischiare di tramutare (o negare) la propria natura in qualcosa d’altro: ecco perché il XX secolo ha visto il fiorire di numerosi Stati e ordinamenti giuridici che, nonostante la loro “forza”, la loro pregnanza, la loro onnipresenza – spesso perfino la loro efficienza –, in cui magari il diritto – come per esempio quello penale – ha assunto un ruolo centralissimo e fondamentale, non sono comunque qualificabili come Stati di diritto, poiché molti di questi ordinamenti e Stati si sono eretti su fondamenta ideologiche che hanno asservito il diritto, lo Stato e la loro funzione, risolvendosi nella negazione di quel diritto naturale che precede il diritto statuale e il cui riconoscimento è unica garanzia di effettività dello Stato di diritto.

Al secondo quesito, per pigrizia e facilità, si potrebbe rispondere formalisticamente limitandosi a rinviare all’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea che così recita:«L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».

Un tale approccio, oltre ad apparire autoreferenziale, tuttavia non da conto di cosa l’Unione Europea – nonostante l’elencazione dei principi e dai valori suddetti – intenda effettivamente per Stato di diritto.

Sebbene sia stato notato da più parti – anche autorevoli – che le modalità operative con cui l’UE ottiene il rispetto dei suddetti principi constino da tempo nell’erogazione o nella sospensione dei finanziamenti, occorre proprio riconoscere che tali strategie rappresentano un problema poiché altro non sono che una forma – forse edulcorata nei mezzi e nobilitata dai fini – di mercanteggiamento, per cui il rispetto dei suddetti principi viene “acquistato” con i finanziamenti europei.

Ciò significa non soltanto che la “democraticità” di un determinato Paese europeo possa non essere effettiva, ma che si attribuisce un prezzo alla qualifica di “Stato di diritto”, svilendo all’un tempo sia lo scopo per cui il finanziamento viene erogato sia la stessa concezione di Stato di diritto.

A tale problema “superficiale” se ne aggiunge uno ben più grave e profondo: la concezione intima dello Stato di diritto che si è diffusa negli ultimi anni a livello europeo, cioè una concezione puramente formalistica e spesso piegata al servizio di specifiche nuove forme ideologiche che in quanto palesemente opposte al diritto naturale minano dall’interno la credibilità della qualifica di uno Stato di diritto che pur tutelandole tale si continuasse a voler definire.

Prescindendo dalle singole riforme che Ungheria e Polonia hanno compiuto di recente, infatti, e che come tutte le riforme sono sempre imperfette e più o meno condivisibili o criticabili, occorre precisare che, per esempio, l’UE potrebbe ritenere violato il suddetto articolo 2 qualora non si intraprendessero politiche pro-attive di diffusione della cosiddetta “ideologia gender” (che nulla ha a che fare con il rispetto della parità e dell’uguaglianza tra donne e uomini) la quale, come, per esempio tra i tanti, più volte anche Papa Francesco ha ricordato, rappresenta un attentato diretto al diritto naturale che sancisce in modo inderogabile la dicotomia maschile/femminile.

Così, se l’UE ritiene che la libertà di espressione dei giornalisti ungheresi e polacchi possa essere minacciata da alcune riforme approvate in quei Paesi, non si esprime con altrettanta preoccupazione per l’approvando disegno di legge Zan che in Italia sarà causa certa di grande compressione (se non di vera e propria soppressione) della libertà di pensiero, di parola e di coscienza, sol perché tale disegno di legge è “genderisticamente corretto”.

In fondo, il sempre più diffuso scetticismo nei confronti delle istituzioni europee, sempre più legate a procedure burocratiche, costi esorbitanti e ipergiuridificazione della vita dei singoli e dei gruppi, sempre più lontane dai popoli europei e dai loro bisogni reali e dalle rispettive culture, sempre più ligie al rispetto dei criteri finanziari piuttosto che al rispetto dello Stato sociale, rivela quanto poco effettiva sia la democrazia nello spazio comunitario e quanto poco vicine al modello dello Stato di diritto siano le stesse istituzioni europee che pur rilasciando ai singoli Stati “certificati di autenticità” in tal senso non si curano con la medesima perizia di essere così autentiche a loro volta.

Insomma, non è così evidente né sicuro che l’Unione Europea integri realmente – almeno nel recente passato e in nell’attuale momento storico – il modello dello Stato di diritto, come, in conclusione, si evince dalle parole di chi come Vladimir Bukovskij, avendo vissuto per anni all’interno di un regime totalitario, ha denunciato già da più di un decennio la palese deriva anti-democratica intrapresa dalle istituzioni dell’Unione Europea:«Per quelli come me che nel ventre di quel mostro hanno vissuto, la verità è lampante[…]. Alla fine del loro esperimento i Paesi europei finiranno per odiarsi al punto da ritrovarsi davvero alle soglie di un conflitto[…]. Ci dicono di reprimere i nostri sentimenti nazionali, le nostre tradizioni, e allora vivremo felici e contenti nelle nostre comunità multietniche. Possiamo dire che il risultato sarà esattamente l’opposto. Anche l’Unione Sovietica per settantatre anni è stata considerata una felice famiglia multietnica, ma al suo crollo i conflitti etnici sul suo territorio sono stati più numerosi che in qualsiasi altro Paese[…]. Ci dicono che lo scopo dell’Unione Europea è quello di farci prosperare. La nostra economia sarà capace di competere con gli Stati uniti, consentendo all’Europa di difendere i propri interessi. Avverrà il contrario. L’economia dell’Unione Europea sarà sempre più oppressa da regolamenti, burocrazia e tasse insostenibili, le nazioni europee diventeranno sempre più povere[…]. Ci dicono che i popoli dell’Unione Europea godranno di una libertà senza precedenti e che i diritti umani saranno rispettati come non mai. Mentono, perché hanno cominciato privandoci del più basilare dei diritti: il diritto di eleggere direttamente chi ci governa[…]. Se il ventesimo secolo ci ha insegnato qualcosa, è innanzi tutto che ogni utopia finisce in un Gulag. Non ci resta che aspettare, e vedremo quale sarà il gulag creato dall’Unione Europea».