L’UE sceglie il polacco Buzek nel Ventennale della caduta del Muro
16 Luglio 2009
Pronti, via! La settima legislatura del Parlamento europeo ha aperto i battenti, ma come spesso accade tra Bruxelles e Strasburgo nessuna grande novità. Un compromesso «alla belga» doveva essere e un compromesso è quello che gli eurodeputati hanno offerto. Nulla di più e nulla di meno.
La logica della spartizione ha dominato anche questa volta: spartizione tra popolari e socialisti (con un accordo che, soprattutto sul fronte commissioni, diventa a tre con l’aggiunta dei liberali) e spartizione tra i due Paesi che ad oggi continuano a controllare politicamente l’Unione, cioè Germania e Francia, con un occhio di riguardo per il Regno Unito.
In realtà un passaggio perlomeno simbolicamente importante c’è stato: l’elezione alla presidenza dell’Europarlamento del polacco Jerzy Buzek, che ricoprirà l’incarico per due anni e mezzo, prima di cederlo al socialista Schulz. Non che Buzek sia un personaggio politico di altissimo spessore, né tanto meno che il ruolo sia decisivo da un punto di vista politico. In politica però i simboli contano e portare al più alto scranno di Strasburgo un ex dissidente di Solidarnosc, Primo ministro polacco dal 1997 al 2001 (nella fase in cui la Polonia ha negoziato il suo ingresso nella Ue e nella Nato) proprio nell’anno in cui si festeggia il ventennale dal crollo del Muro di Berlino ha un indubbio valore simbolico.
Quell’allargamento ai Paesi dell’est che ha significato fine di una condizione antistorica ma che, da molti punti di vista, provoca ancora ragionevoli perplessità, con l’elezione di Buzek alla presidenza dell’Europarlamento ottiene un’ulteriore legittimazione.
A cinque anni dal grande allargamento l’elezione praticamente unanime di Buzek (si sono opposti solo comunisti, socialisti francesi e greci) è un passo, da non sopravvalutare ma nemmeno da sottostimare, verso un processo di effettiva unificazione che resta lento e complicato. Peraltro l’ex premier polacco incarna molte delle caratteristiche, sia positive che negative, dell’euro-parlamentare. Molto preciso sui dossier, grande lavoratore, aperto al dialogo e al compromesso, ma allo stesso tempo dotato di scarsa personalità e non grande predisposizione all’esercizio della leadership.
Viene a questo punto da chiedersi perché Buzek e non Mauro, il candidato del Pdl?
Per cercare di rispondere a questa domanda bisogna inevitabilmente tornare a riflettere sulle logiche compromissorie che sono alla base dell’accordo di legislatura tra popolari e socialisti. Mauro sarebbe stato un candidato con un profilo certamente più divisivo, meno accondiscendente e probabilmente meno disposto a svolgere un incarico praticamente senza poteri.
La seconda ragione riguarda l’accordo franco-tedesco e l’appoggio conseguente, soprattutto da parte di Berlino, a Buzek. Il capogruppo popolare (non a caso un francese, Joseph Daul) e quello socialista (non a caso un tedesco, Martin Schulz) hanno deciso per la solita formula delle due presidenze che si dividono il periodo di cinque anni e Berlino ha guidato le danze. Infatti, il grande successo è tedesco che in questo modo da Pottering, al filo-tedesco Buzek e al tedesco Schulz è riuscita a garantirsi la guida dell’Europarlamento per sette anni e mezzo.
Corollario a questa possibile spiegazione la scarsa tendenza italiana a fare blocco unito come sistema Paese e quella speculare di riproporre a Strasburgo e a Bruxelles le divergenze, a volte sopra le righe, tipiche della politica interna. Se saranno confermate le indiscrezioni il bottino delle commissioni, la vera anima pulsante del Parlamento, non è comunque da disprezzare per l’Italia.
Dovrebbero essere quattro le commissioni conquistate: tre «pesanti», quella affari esteri con Gabriele Albertini, quella agricoltura con Paolo de Castro e quella affari costituzionali con Carlo Casini, e una meno rilevante, quella petizioni, per Elisabetta Gardini. Tutto sommato non male, naturalmente da non paragonare alle quattro commissioni pesanti ottenute da Parigi (bilancio, sviluppo, lavoro e difesa) e a quelle altrettanto significative in tempo di crisi strappate dalla Gran Bretagna (affari economici e mercato interno).
Ma il nocciolo della questione non è forse nemmeno qua. Il vero punto sembra essere, purtroppo, sempre il solito. Nemmeno un tasso di astensione media attorno al 57% ha indotto i parlamentari di Strasburgo ad un gesto di discontinuità nel loro operato e nei loro logori rituali. Anche la «minaccia» nei confronti di Barroso e la scelta di rinviare la sua formale riconferma alla seduta del 16 settembre, con la possibilità (addirittura!) di attendere il post referendum irlandese (2 ottobre 2009), celano un gioco delle parti fine a se stesso.
Infatti, ad oggi Barroso è l’unico candidato in campo, è soprattutto il candidato designato dal Consiglio europeo (al momento il principale dei tre pilastri dell’edificio europeo) e infine Barroso è il candidato del partito ampiamente maggioritario (i popolari). Per contrastarlo servirebbe che a Strasburgo l’approccio burocratico e votato al compromesso fosse sostituito da quello finalizzato alla più classica contesa politica.
Eppure le grandi questioni politiche non mancano all’orizzonte. Se ne possono ricordare due tra le tante.
La sentenza della Corte costituzionale tedesca di Karlshrue, passata sotto silenzio ma potenzialmente devastante per il Trattato di Lisbona, ma più in generale per la complessiva evoluzione costituzionale dell’Ue. I giudici tedeschi hanno detto testualmente che il diritto costituzionale di uno stato democratico, fondato su un meccanismo costituente a base rappresentativa, deve sempre prevalere su un diritto europeo che quella base non ha.
Ne consegue che per adottare un provvedimento come il Trattato di Lisbona (che si presenta come costituente) serve un passaggio democratico a livello di parlamento nazionale, un passaggio che nel caso tedesco contingente significa una legge votata dal Bundestag e non una semplice ratifica con voto parlamentare. Lo Stato del “patriottismo costituzionale”, quello che ha fatto dell’idea di “Europa potenza civile” il fulcro del suo cinquantennale sviluppo si è avviato su posizioni di netta discontinuità rispetto al passato anche recente?
Secondo elemento. Sarkozy ha parlato a Versailles dieci giorni fa ribadendo la necessità di andare verso una nuova Europa e ha poi presentato progetti di riforma fondati su un principio di deficit spending che assomiglia molto al socio-gollismo di quel Séguin, che, nel 1992, si oppose a Maastricht. D’altra parte sia il premier Fillon che Guaino (il consigliere più ascoltato di Sarkozy) furono all’epoca fieri oppositori di Maastricht.
Insomma Parigi e Berlino, da punti di vista differenti ma concentrici erodono dall’interno i capisaldi dell’europeismo così come si è sviluppato nell’ultimo trentennio? E a Strasburgo che si fa? Si apre un dibattito sul tema? No, a Strasburgo è business as usual…