Luna d’Irlanda. Cosa ci ha insegnato il sacrificio di Bobby Sands
15 Luglio 2010
E’ chiusa in una scatola, oggi, la luna d’Irlanda, di quel pezzo di Nord dell’isola verde ancora sotto il controllo della corona d’Inghilterra. Non sanguina più come una volta; non le si vedono le costole sporgenti per l’inedia forzata che si era imposta tra gli anni Settanta e Ottanta, forma di sciopero estrema per urlare al mondo che il Regno Unito faceva poltiglia dei diritti della gente cattolica, che si batteva per la causa dell’Irlanda una e repubblicana.
Sopravvive la luna, ma chiusa nella scatola – nell’anno del Signore 2010 – ancora non può sorgere come Robert “Bobby” Gerard Sands, un piccolo uomo entrato nella storia della sua terra – e delle pagine più vergognose d’Europa – sperava, prima che “il” sacrificio se lo portasse via. A 27 anni.
“Se non riescono a distruggere il desiderio di libertà non possono stroncarti. Non mi stroncheranno perché il desiderio di libertà e la libertà del popolo irlandese sono nel mio cuore. Verrà il giorno in cui tutto il popolo irlandese avrà il desiderio di libertà. Sarà allora che vedremo sorgere la luna”. Così scrisse Bobby – in gaelico, nella lingua che la "anglicizzazione" dell’isola ha cancellato – nell’ultima pagina del suo diario, il 17 marzo 1981, quando le forze lo abbandonarono dopo 16 giorni di sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, nei pressi di Belfast. Spirò il 5 maggio.
Questo giovane uomo è il simbolo vibrante di una “questione” (propriamente detta e, come ogni questione della storia, di fatto destinata a incartarsi nell’impossibilità di risolversi) ignota ai più, o meglio nota a pochissimi. E’ la vicenda dell’Irlanda del Nord, colonia immersa nel Vecchio continente, insanguinata da un’occupazione che ha lasciato sul selciato 3.700 morti (da entrambe le parti). La gente, incolpevole – perché sui libri di storia stampano le versioni dei vincitori o dei profittatori a prescindere – non conosce cosa sia accaduto a Belfast e nelle altre contee della cima d’Irlanda; quanto feroce discriminazione i cattolici repubblicani siano stati costretti a subire; quanto radicale protesta siano stati forzati a praticare per raccontare all’universo mondo che nelle topaie dei nordirlandesi leali alla regina l’essere umano scopriva di poter vegetare in condizioni peggiori di una bestia. Senza garanzie giudiziarie, senza la guarentigia dello status di prigioniero politico, senza la dignità che gli aguzzini travestiti da guardie carcerarie si ingegnavano a strappare loro con modi sempre diversi e più sadici.
Furono in tanti, non il solo Bobby, a testimoniare dietro le sbarre le ragioni di una battaglia fatta di non violenza, di programmata privazione di un pezzo di sé. In principio fu la protesta delle “coperte” (blanket protest), per cui si rifiutarono di indossare l’uniforme del carcere dopo l’abolizione, nel marzo 1976, dello status di prigioniero politico; quindi la no-wash protest di due anni più tardi, in nome della quale i detenuti repubblicani rinunciarono a lavarsi e a svuotare i buglioli nelle celle, con ciò affogando nella loro stessa urina; costretti a spalmare gli escrementi sulle pareti per non calpestarli; convivendo con mosche e vermi, da afferrare a manciate e tirare fuori dal ritaglio di muro per non finirne ricoperti; combattendo con un fetore che annodava le viscere.
Allora, c’è perfino difetto di retorica nel definire una simile condizione come "l’inferno in terra", se a questo si aggiungono le umiliazioni e le percosse dei secondini. Infine, ultimo grado dell’annichilimento – imposto e inevitabile – i prigionieri nazionalisti decisero di rinunciare al cibo, certi che ciò non avrebbe inciso sulla linea di intransigenza del governo britannico guidato da Margaret Thatcher nei loro confronti, e che sarebbero morti di stenti; ma una scelta così estrema non sarebbe stata inutile se fossero riusciti a fare arrivare la propria voce fuori da Long Kesh e dagli altri penitenziari; come fece Bobby, scrivendo clandestinamente per tre anni articoli, racconti e poesie per il giornale nazionalista “An Phoblacht/Republican News” su pezzi di carta igienica, con un refil che spesso era costretto a nascondere dentro il proprio corpo.
Il ragazzo che aveva vissuto sulla propria pelle la persecuzione perpetrata dai lealisti – al punto che la sua famiglia fu costretta a cambiare quartiere trovando riparo a Twinbrook, una zona periferica di Belfast nella quale i cattolici stabilirono il loro “ghetto” – grazie al suo carisma diventò il leader naturale dei prigionieri repubblicani a Long Kesh; cantava e suonava la chitarra (nelle cages, prima del trasferimento negli agghiaccianti Blocchi H), dava lezioni di gaelico, teneva più di ogni cosa a che il grado di compattezza e di consapevolezza politica dei compagni non venisse scalfito dalla detenzione; per questo ripeteva sempre che la loro era una protesta anzitutto politica e solo in subordine volta a migliorare le condizioni dei prigionieri in carcere.
Le piazze d’Europa, che tra l’aprile e il maggio del 1981 si riempirono di manifestanti solidali con la causa repubblicana, testimoniarono che gli hunger strikers avevano colto il loro obiettivo. I precursori furono sette detenuti, rinchiusi in vari penitenziari dell’Irlanda del Nord, che iniziarono a rifiutare il cibo nell’ottobre del 1980; a loro si affiancarono, a partire dal marzo successivo, Sands e poco più avanti altri nove prigionieri che si spensero con integrità che ha del sovraumano tra maggio e agosto.
Quanto è drammaticamente stato è nel libro “Il diario di Bobby Sands – Storia di un ragazzo irlandese” (di Silvia Calamati, Laurence McKeowne – compagno di prigionia di Sands – e Denis O’Hearn, edito da Castelvecchi), in cui il rischio di sacralizzare nella retorica le figure dei prigionieri repubblicani è esorcizzato dalla nettezza delle parole del diario dello stesso Bobby, e da sezioni collaterali in cui la volontà di spiegare senza filtri prevale sul pericolo di enfatizzazione.
Il volume sarà presentato oggi 15 luglio a Roma, alle ore 18.30, all’Ufficio del Parlamento europeo in Via IV Novembre 149, da Roberta Angelilli, Vicepresidente del Parlamento europeo, Andrea Mellone di Radio Rai, Tommaso Della Longa, giornalista esperto della questione irlandese, e Silvia Calamati, autrice del libro. Un’occasione per capire perché siano arrivate solo oggi – con colpevole ritardo – le conclusioni del “Rapporto Saville” (ordinato nel 1998 da Tony Blair) sulla “Domenica di sangue” del 20 gennaio 1972, quando una squadra di paracadutisti britannici sparò sui manifestanti cattolici a Londonderry, provocando 14 vittime. L’attuale premier conservatore, David Cameron, ha definito quanto accadde “ingiustificato e ingiustificabile” chiarendo che furono i militari di sua maestà ad aprire per primi il fuoco, e quindi a falciare i manifestanti in fuga. Importante, ma purtroppo non basta a far sorgere la luna.