L’università di Mussi ovvero il trionfo della burocrazia
18 Aprile 2007
Tutto preso a fornire un’ulteriore prova della leggendaria propensione scissionista della sinistra (per cui i peggiori nemici sono sempre i compagni di strada), a Fabio Mussi, ministro dell’Università e della Ricerca, non resta molto tempo da dedicare né all’università né alla ricerca. È da un anno che è seduto sulla sua poltrona, e per ora da lui non abbiamo avuto altro che congelamenti, rinvii e inadempienze. La legge 230 (“decreto Moratti”), pur approvata dal Parlamento, è volutamente disattesa e inapplicata; i concorsi per i nuovi docenti di prima e seconda fascia sono bloccati; si vocifera di nuove procedure per i concorsi per ricercatori, ma anche qui per ora siamo a un nulla di fatto; le nomine dei direttori degli istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) sono stati congelati per un anno; quattro dei cinque rappresentanti italiani alla European Science Foundation non sono mai stati nominati. E andate dicendo. Questo è ciò che, forse con ironia, il ministro ha definito il suo “pacchetto serietà”.
Il Consiglio Universitario Nazionale (CUN), l’organo elettivo che dovrebbe affiancare il ministro in un ruolo di governance dell’università italiana, è il primo a lamentarsi. Lo ha fatto nella sua seduta del 5 aprile, dichiarandosi “fortemente preoccupato”. Pierluigi Poggiolini, ingegnere elettronico del Politecnico di Torino, segretario della Commissione Stato Giuridico e Reclutamento dello stesso CUN, è dell’opinione che Mussi stia “volontariamente disattendendo l’applicazione della legge 230, sulla base di presunti problemi attuativi che, qualora fossero anche reali, sarebbero facilmente e prontamente correggibili dal ministro stesso e dal Governo”, e ci informa che il sottosegretario Luciano Modica ha “dichiarato più volte che non vuole applicare la [legge] 230”. Lo stesso Presidente del CUN, Andrea Lenzi, endocrinologo dell’Università di Roma “La Sapienza”, si dichiara impossibilitato “ad affrontare una revisione strutturale di grande respiro” a causa di richieste di adempimenti burocratici che calano in modo “pressante e urgente” dallo stesso ministro (12 aprile). Insomma, si blocca tutto per un anno e poi, per chissà quale scadenza improrogabile, che non è difficile identificare in motivazioni politico-elettorali ben lontane dal mondo dell’università e della ricerca, si chiede a tutti di lavorare in emergenza. Vedremo che cosa risponderà al ministro la prossima adunanza del CUN, prevista per l’8-10 maggio.
Se il “non fare” del ministro Mussi rispecchiasse una sua volontà di rispettare e di favorire l’autonomia delle università, allora saremmo tutti più contenti. Purtroppo non è così. Anzi, il poco che esce dal suo ministero va tutto nella direzione dell’involuzione burocratico-ministeriale. Leggetevi le 135 pagine del decreto ministeriale che ristruttura le “classi di corsi di laurea” delle lauree triennali; o le 306 pagine del decreto gemello che riguarda le lauree magistrali; o ancora, le “Linee guida per la definizione dei nuovi ordinamenti didattici” che accompagnano i due decreti, e ve ne renderete conto. Sono le famigerate “Tabelle” ministeriali alle quali ogni università deve adeguare i propri insegnamenti. Il sottosegretetario Modica crede di rassicurarci, spiegando che si tratta soltanto della metà dei crediti, e che il “nucleo forte” dove “si esercita e si deve esercitare la sperimentazione, la flessibilità, in una parola l’autonomia delle Università” sarebbe l’altra metà (1 febbraio). La realtà è che in un sistema universitario davvero autonomo tali “tabelle” non dovrebbero neppure esistere.
E ancora. L’altra grande preoccupazione di questi giorni del ministro Mussi sarebbe quella di ridurre i settori scientifico-disciplinari da 346 a 90. Tanto per capirci con un esempio: il gruppo di docenti che insegna”Storia e istituzioni delle Americhe” verrebbe abolito e potrebbe andare a finire nel calderone delle storie extraeuropee, insieme alla Cina, alla Namibia, alla Mongolia e alle Isole Figi, in un tripudio di terzomondismo vetero-marxista più vicino alla Monthly Review degli anni sessanta che alle tendenze storiografiche degli anni duemila. Certo, in passato l’esplosione abnorme dei settori scientifico-disciplinari è stata spesso motivata da interessi di bottega. Ma un sistema universitario davvero autonomo dovrebbe semplicemente abolire i cosiddetti “settori scientifici-disciplinari”.
L’esperienza ha ormai mostrato, senza ombra di dubbio, che tali periodiche revisioni della burocrazia ministeriale hanno un solo scopo e una sola conseguenza: giustificare l’esistenza del ministero stesso e impegnare per anni università, facoltà, dipartimenti e docenti a discutere, obiettare, opporsi, adeguarsi, rimodulare, in una spirale di cieca inutilità che di fatto impedisce per anni ai docenti e ai ricercatori più responsabili e attivi di fare il loro mestiere: leggere, scrivere, sperimentare, ricercare, insegnare, vale a dire, tramandare la conoscenza umana e produrne di nuova.
La soluzione a tanto burocratismo? In un mondo perfetto (che prescinda cioè dalle opportunità legate ai rapporti di forza parlamentari), a me verrebbe in mente una legge fatta di tre articoli soltanto: 1. È abolito il valore legale di ogni titolo di studio di livello universitario; 2. Ogni università organizza autonomamente l’insegnamento, la ricerca, il reclutamento dei docenti, l’ammissione degli studenti, il suo governo e il suo finanziamento. 3. Il Ministero dell’Università e della Ricerca è abolito; le sue competenze passano alle università e al Consiglio Nazionale delle Ricerche. Forse, agli occhi dei posteri, la gestione burocratico-centralista del ministro Mussi avrà avuto l’ironico merito di farci aprire ulteriormente gli occhi sul fatto che il nostro sistema universitario è un malato che non ha più possibilità di cure.