L’Uruguay apre “l’anno elettorale” in America Latina e la sinistra trema

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L’Uruguay apre “l’anno elettorale” in America Latina e la sinistra trema

26 Ottobre 2009

Si andrà al ballottaggio tra il candidato del Frente Amplio, l’ex-guerrigliero tupamaro José Alberto “Pepe” Mujica Cordano, e quello del Partito Nacional “Blanco”, l’ex-presidente Luis Alberto Lacalle: e questo era previsto. Dopo scrutinato un quinto dei voti Mujica stava al 39,15%, contro 34,35 di Lacalle e il 19,21% diel “Colorado” Pedro Bordaberry: e questo era molto meno prevedibile. Sarebbe un tracollo per la sinistra, che alle primarie ha scelto un candidato dal profilo molto più radicale rispetto al socialista presidente uscente Tabaré Vásquez: nel 2004, il 50,45% al primo turno. Sarebbe un principio di ripresa per il Partido Colorado, l’altra forza politica tradizionale del Paese: quella per cui aveva combattuto Garibaldi durante la guerra civile in cui le due fazioni blanca e colorada erano emerse; vincitore ancora nel 1999 col 32,8% al primo turno e il 54,13% al ballottaggio, nel 2004 era precipitato al 10,36. E sarebbe, soprattutto, la sconfitta certa per Mujica al secondo turno, visto che Bordaberry ha già annunciato il suo voto per Lacalle.

Non il primo ricambio di governo verso destra da quando è iniziata la famosa “ondata di sinistra” latino-americana: a maggio c’era già stata l’elezione di Ricardo Martinelli a Panama. Ma l’amministrazione del Partito Rivoluzionario Democratico nell’Istmo era una sinistra sfumata, e che poi da sempre si alterna al potere: anche se a maggio aveva selezionato una candidata in odore di chavismo. Il Frente Amplio, pittoresca e eterogenea coalizione dai tupamaros a ex-blancos e ex-colorados passando per comunisti, post-comunisti, socialisti, socialdemocratici, democristiani e centristi vari, era andato invece al governo per la prima volta, e si era anche inserito nell’asse chavista, anche se solo fino a un certo punto. Vásquez, ad esempio, aveva aderito al progetto televisivo di TeleSur, ma non all’area di integrazione Alba.

Va detto però che le tre società demoscopiche del Paese insistono: questi primi scrutinii non sono rappresentativi della varietà geografica del Paese, e alla fine Mujica dovrebbe comunque arrivare al 46-48, contro il 28-30 di Lacalle e il 18 di Bordaberry. Ma comunque il calo della sinistra ci sarebbe stato: anche se nella misura inferiore già preannunciata. Comunque la partita per il ballottaggio appare per Mujica difficilissima: se si aggiunge che anche il quarto candidato Pablo Mieres, secondo i primi dati attorno all’1,85 e secondo le previsione al 2,5%, è nell’area del centro-destra. E comunque se pure Mujica la spunta il Frente Amplio avrebbe perso la maggioranza assoluta in Congresso. In campagna elettorale l’ex-tupamaro per caratterizzarsi in modo più centrista aveva in continuazione parlato dell’intenzione di collaborare con gli altri partiti dopo la vittoria, oltre a prendere le distanze dal castrismo ed ha spigare che i suoi modelli erano Lula e la Finlandia. È tornato ora a parlare di “unità nazionale”, e a questo punto sarebbe una necessità.      

Ma il voto in Uruguay non è che il primo di quello che i latino-americani chiamano "l’anno elettorale": un evento che si riproduce periodicamente, e consistente in una raffica di elezioni che in 12 mesi porterà alle urne metà dei latino-americani. Il 29 novembre, lo stesso giorno del ballottaggio in Uruguay, si voterà infatti in Honduras. Rotte ormai definitivamente le trattative con Zelaya, il governo di Micheletti ha deciso di puntare decisamente sul nuovo risultato alla ricerca di una legittimazione, anche se la comunità internazionale ufficialmente insiste nel non volerne riconoscere il risultato se prima il presidente deposto non sarà stato restaurato al potere. Ma i quatto candidati sono autonomi rispetto a Micheletti, hanno svolto un’importante opera di mediazione, e con l’accettarla lo stesso Zelaya ha di fatto dato loro un riconoscimento. Diventerebbe dunque più difficile mantenere l’ostracismo nei confronti di un vincitore che ad esempio decreti un’ampia amnistia e faccia altre concessioni: ma. ovviamente, molto dipenderebbe dall’esito della chiamata al ballottaggio zelaysta sull’afflusso elettorale. 

Poi il 6 dicembre c’è la Bolivia. Evo Morales non dovrebbe avere problemi a farcela al primo turno, anche per la divisione dell’opposizione, che non è riuscita a concordare un candidato unitario. Unico problema per il presidente indio: la perdurante ostilità nei suoi confronti dell’area orientale del Paese, che dovrebbe essere confermata dalle urne.

Il 13 dicembre in Cile si dovrebbe avere invece un terremoto politico. La presidentessa uscente Michelle Bachelet dopo vari momenti di crisi è riuscita infine a recuperare una popolarità del 70%; ma non a trasmetterla alla sua Concertazione dei Partiti per la Democrazia, il cui candidato Eduardo Frei Ruíz-Tagle, democristiano, presidente tra 1994 e 2000 e figlio dell’altro famoso presidente del 1964-70, lotta ormai addirittura per il secondo posto. Spalla a spalla attorno al 20% con il 36enne Marco Enríquez-Ominami Gumucio; figlio di un famoso guerrigliero dell’estrema sinistra ucciso in un conflitto a fuoco durante il regime militare quando lui aveva appena un anno; con patrigno un senatore socialista; e lui stesso deputato socialista, fino a quando non ha rotto col partito per candidarsi come indipendente.

Espressione di un’opinione pubblica di sinistra ormai stanca dei vent’anni di centro-sinistra con i democristiani, è visto con favore anche dai giovani in cerca di un generico rinnovamento. Inoltre esprime il punto di vista più prossimo all’ondata chavista che possa esprimere un Paese come il Cile: “appoggio Chávez quando chiude una televisione reazionaria, lo condanno quando espelle il direttore di Human Rights Watch”. Sia lui che Frei però secondo i sondaggi perderebbero al ballottaggio del 17 gennaio contro Sebastián Piñera Echeñique: l’uomo più ricco del Cile, fratello del José Manuel che inventò il famoso sistema pensionistico cileno, e candidato ormai post-pinochettista. Due dei partiti della sia coalizione, compreso il suo, appoggiarono infatti il regime militare. Lui però dichiarò pubblicamente il suo voto contrario a Pinochet al referendum del 1988, e ha con sé un terzo partito di fuoriusciti dalla Concertazione, in particolare ex-socialisti.           

Segue il 7 febbraio il Costa Rica. Tutti i sondaggi confermano la vittoria di Laura Chinchilla Miranda, dello stesso socialdemocratico Partito di Liberazione Nazionale (Pln) del presidente uscente Óscar Arias Sánchez. Il dubbio è se arriverà secondo Ottón Solís Fallas, ex-ministro del Pln separatosene in polemica contro la sua svolta “neo-liberale”; o il “libertario”, liberista duro, Otto Guevara Guth.
Due date per la Colombia: il 14 marzo le politiche; il 30 maggio le presidenziali. Ma lì è ancora tutto in alto mare, perché non si sa ancora né se a dicembre la Corte Costituzionale giudicherà legittimo il voto con cui il Congresso ha convocato un referendum per permettere la terza rielezione di Álvaro Uribe Vélez; né se il referendum verrebbe approvato; né se Uribe Vélez accetterebbe effettivamente di tornare in campo. La sua popolarità resta comunque alta, e se non ci fosse lui l’erede designato sembra quasi sicuramente l’ex-ministro della Difesa Juan Manuel santos, a sua volta aureolato dei recenti successi nella lotta alle Farc.

Il 3 ottobre segue il Brasile. Anche qui è in testa la destra, con l’ex-ministro della Sanità e attuale governatore dello Stato di San Paolo José Serra che ha almeno il doppio delle intenzioni di voto rispetto all’erede ufficiale di Lula Dilma Roussef: ministro della Casa Civile, che sarebbe una via di mezzo tra il Sottosegretario alla Presidenza italiano e il Primo Ministro in un sistema semipresidenziale alla francese.

Tra fine novembre e inizio dicembre, infine, le politiche in Venezuela. Dove Chávez è a livelli di impopolarità record, ma l’opposizione non sfonda per assoluta carenza di leadership: anche perché quando ne emerge una ormai il regime la stronca subito a colpi di imputazioni più o meno pretestuose; ma non solo. Comunque, il partito maggioritario sarebbe ormai il "non so chi votare": 49%, contro il 31% che si riconosce in Chávez e il 16% nell’opposizione. Per Chávez l’incognita principale è al momento il venir meno dell’ondata a sinistra in cui fino a questo momento ha inserito la sua iniziativa continentale, anche se l’analisi del trend può essere controversa. Dopotutto, a rischio di saltare sarebbe finora non i governi di sinistra radicale ma quelli moderati: Uruguay, Cile, Brasile… Che sono proprio quella vasta area di compensazione che finora aveva giocato di sponda tra il caudillo venezuelano e i vari inquilini della Casa Bianca, impedendo il muro contro muro.