Ma Guareschi sarebbe andato a San Giovanni con il popolo del Pdl?

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Ma Guareschi sarebbe andato a San Giovanni con il popolo del Pdl?

28 Marzo 2010

E’ immaginabile Giovannino Guareschi con tromba da stadio e sciarpa pidiellina? No, neanche il più raffinato strumentalizzatore sarebbe stato credibile se avesse detto che il compianto reazionario di “Mondo piccolo” avrebbe guidato di buona voglia le masse berlusconiane. Però forse – e ci scusi Giovannino per l’ucronico ardire – un   fondo lo avrebbe scritto, una vignetta l’avrebbe disegnata, motivato da un impasto di urgenze: non darla vinta ai peggiori pepponi che nel XXI secolo italiano hanno pensionato Gramsci per combattere con le toghe creative, e sostenere – malgrado tutto – un capo dei conservatori che tra innumerevoli difetti (e altrettante virtù) ha il merito di essere radicalmente arci-italiano.

Guareschi non sarebbe andato in piazza San Giovanni per denunciare col Cavaliere la barbarie dei magistrati che commissariano la politica (soprattutto se destrorsa), delle telefonate sputtananti sui giornali, dell’assedio mediatico contro il premier. Fosse ancora tra noi, lucido e ultracentenario, avrebbe sentenziato che Berlusconi di fesserie ne ha fatte, ma anche che merita di arrivare a fine legislatura perché è l’unico che guida governi che governano (…un popolo che più di altri “deve” essere guidato) e – soprattutto – l’unico che avrebbe salvato Eluana. Per "l’intellettuale civile" Guareschi, monarchico, cattolico non democratico e non compromissorio, avrebbe contato tanto che l’ex “anarchico dei valori” sia diventato il politico pragmatico che sa “a prescindere” che i principi non negoziabili meritano difesa integrale.

Bene allora fa Marco Ferrazzoli, giornalista di lungo corso transitato per giornali, radio e tv (ora capo ufficio stampa del Cnr e segretario di “Lettera 22”, associazione di giornalisti che contrasta meritoriamente il monopolio rosso del settore), a cucire addosso a Guareschi l’etichetta di “intellettuale civile” nel suo Non solo Don Camillo (“L’Uomo Libero”, 2008) che riesce appieno nell’intento di restituirgli la dimensione non macchiettistica che gli compete. Il Nostro è stato deportato nei lager nazisti, arrestato, dimenticato e ancor più grave – soprattutto a causa delle trasposizioni cinematografiche con Gino Cervi e Fernandel – banalizzato, in buona fede (per rendere più appetibili i film) come in cattiva (ammorbidendo il suo tratto conservatore fino a farlo passare per fautore dell’abbraccio tra cattolici e comunisti). Ferrazzoli tratteggia il percorso umano, giornalistico, politico, figurativo, letterario di Guareschi con l’appassionato distacco di chi è consapevole che basta raccontare fatti non deformati dall’interpretazione per inquadrare correttamente l’animatore del “Bertoldo” e del “Candido”.

Setacciandone la vita resterebbe così tanto da rendere ancora più fastidioso quel misto di disinteresse e sottovalutazione che oggi pesa sulla sua figura. Sul banco degli imputati finirebbero la scuola, l’accademia, molta gerarchia ecclesiastica, i cinematografari che spacciano le pellicole con Don Camillo e Peppone per commediole, il centro cattolico, soprattutto quella destra conservatrice che in Italia si è fatta fagocitare dal fascismo prima e dai democristiani di sinistra poi. Quanti onori dovrebbe rendergli la destra politica del prossimo passato e dell’oggi; lui che dovrebbe beneficiare di un posto di privilegio nel pantheon degli anticomunisti e costituire materia di studio nelle Frattocchie di Berlusconi, è confinato nei convegni di nicchia dei cugini della “destra culturale”; lui che pure detta i fondamenti della destra divina ben raccontata da Camillo Langone nel suo ultimo libro, è dipinto da qualche sottosegretario superficiale come l’autore della saga che «mantiene in vita luoghi comuni che danneggiano l’immagine del cinema italiano».

Sono in tanti a dover fare ammenda per avere scambiato un intellettuale civile come Guareschi per un anonimo crepuscolare. Non è figlia di compiacimento provincialistico la scelta di ambientare le vicende di “Mondo piccolo” nei confini precisi di quella «fettaccia di terra tra il fiume e il monte», tra gli Appennini e il  Po, tanto è determinata la volontà di dare caratterizzazione reazionaria, anche geografica, a un italianità che è tale nella Bassa parmense come a Trapani. Non è rimuovibile con un colpo di spugna l’uomo che dal settembre del ’43 all’aprile del ’45 finisce nei lager tedeschi di Polonia e Germania per non tradire il Re, e lì impedisce che la resistenza morale dei prigionieri avvizzisca concependo e offrendo loro opere come “Diario clandestino” e “Favola di Natale”. Non è cancellabile la guida intellettuale, monumento di coerenza, che al di qua del filo spinato ricorda che «la sofferenza è un acido che avvelena i muscoli e le ossa ma ripulisce l’anima».

Guareschi è il propagandista che conia slogan di rara efficacia (su tutti, durante la campagna elettorale del ’48, «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no» o il «Mamma, votagli contro anche per me» pronunciato dallo scheletro di uno dei centomila italiani che non fecero ritorno dalla Russia); è l’umorista caustico che dice di temere la «retorica più di una pistola puntata alla tempia»; è il cattolico di granito che si scaglia (e fa scagliare Don Camillo) contro i preti modernisti, lui che dichiara di «accettare la Legge Divina non solo senza discuterla, ma senza neppure ragionarla»; è il civis che senza nulla chiedere in cambio mette talento e creatività al servizio dei democristiani, che cessano di meritare il suo sostegno quando l’afflato anticomunista del ’48 – animato dai Comitati Civici di Luigi Gedda– si spegne coi primi flirt tra cattolici e comunisti; è il patriota non sciovinista avvilito per la mancanza di orgoglio nazionale dell’italiano medio che – dice – «per sentirsi qualcuno ha bisogno di essere “anti” qualcosa»; è alla fine, dopo la prigionia seguita alla querela di De Gasperi per due lettere a lui attribuite pubblicate sul “Candido” e giudicate false (omaggio estremo alla coerenza intellettuale; finirà in galera per essersi rifiutato di ricorrere in appello), il disincantato che ricorda a sé stesso «la politica mi fa sempre più nausea»; è il conservatore, ma anche "l’anarchico" e il “sovversivo” (sempre sue definizioni) che parla la stessa lingua di un antimodernista uguale e contrario come Pasolini, con cui realizza il film “La Rabbia” nel ’63.

Tutto questo, e scusate se è poco, era Giovannino Guareschi. Onore a Ferrazzoli che ce lo spiega con piglio non apologetico, ma nonostante questo, concluso il libro, pensiamo con non meno disgusto al contrasto tra guitti osannati e Maestri dimenticati.