Ma il futuro dell’Europa è (ancora) l’Unione Europea?
11 Dicembre 2017
Ma l’Europa è l’Unione europea? “Mr. Gabriel’s speech made clear that important allies of the United States remain not only skeptical of the Trump administration but are preparing to part ways on significant issues.‘We must be able to define our own position and, if necessary, draw red lines, in partnership, but oriented around our own interests”. Melissa Eddy scrive sul New York Times del 5 dicembre, che il ministro (uscente) degli Esteri tedesco (un socialdemocratico) non solo è scettico verso Trump ma chiede di preparare percorsi alternativi a quelli degli Stati Uniti. Dobbiamo definire la nostra posizione tracciando delle linee invalicabili fissate secondo i nostri interessi, dice.“Les deux chefs d’Etat devraient également signer plusieurs contrats dont ‘la maturité est proche’, selon l’Elysée. Parmi eux pourraient figurer l’achat par Doha de douze nouveaux avions de combat Rafale (groupe Dassault) et la concession du métro de Doha aux groupes RATP et Keolis, pour quelque 3 milliards d’euros selon la presse économique. Autre contrat en négociation, l’achat de 300 véhicules blindés au groupe Nexter, qui pourrait représenter jusqu’à 2 milliards d’euros. En 2016, Doha avait acquis 24 Rafale pour 6,3 milliards d’euros”. Un flash di Le Figaro del 7 dicembre intanto ci informa che Emanuel Macron ha incontrato Tamim bin Hamad al-Thani in Qatar per discutere sul terrorismo, en passant gli ha anche venduto dodici nuovi aerei di combattimento Rafale (gruppo Dassault), ha ottenuto la concessione della costruzione del metrò di Doha da parte della Ratp e del gruppo Keolis, ha iniziato a trattare per 300 veicoli blindati del gruppo Nexter. Ecco spiegati “gli interessi” evocati da Sigmar: non propriamente schiacciati solo sugli ideali di pace, solidarietà e libertà.
E’ in simili contesti che leggiamo Ágnes Heller che sulla Repubblica del 7 dicembre con la sua solita intelligenza scrive che: “Sollevare la questione del futuro dell’Europa significa parlare del futuro dell’Unione Europea: vale a dire che l’Europa non ha altro futuro rispetto a quello dell’Unione Europea. Se l’Unione dovesse andare in frantumi, l’Europa tornerebbe al passato, a un mosaico di nazioni autoreferenziali ed egoistiche, riportando alla luce vecchie ferite e vecchie ostilità, recitando il terzo atto di un’antica tragedia che si trasforma in farsa. L’Europa perderebbe la sua importanza economica, le sue istituzioni politiche – nello scenario migliore – eserciterebbero il fascino di un museo dedicato a un’antica grandeur smarrita, ma resterebbe la patria indiscussa dell’alta moda”. Dicevo intelligente come al solito ma disperata perché puntare tutte le carte sulla nuova Cacania in cui solo gli affari scaldano i cuori, perdendo di vista che l’Unione europea ha un futuro se è europea (cioè almeno inglese e possibilmente come auspicava Charles de Gaulle anche un po’ russa, soprattutto oggi che non significa sovietica) e se è occidentale cioè anche americana, significa soltanto richiudersi nel supermercato carolingio. Non mi pare una via realistica per pensare un futuro.
La nuova Repubblica terrorizza Carlo De Benedetti. “Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso – aggiunge l’ingegnere -Berlusconi è un condannato in via definitiva per evasione fiscale e corruzione della giustizia. Se non fosse per l’età, sarebbe un endorsement sorprendente per uno come Scalfari che ha predicato, sia pure in modo politicamente assai cangiante, la morale. Penso che abbia gravemente nuociuto al giornale“. Così parla Carlo De Benedetti sul Corriere della Sera del 3 dicembre intervistato da Aldo Cazzullo. Si prova malessere a leggere le parole debedettiane: l’attacco alla vanità di uno con cui si lavora e si affari da più di trent’anni, il moralismo antiberlusconiano di un immoralista recentemente messo al suo posto dal processo che aveva intentato contro Marco Tronchetti Provera denunciato perché lo avrebbe diffamato, l’impietoso accenno all’età del Fondatore ambiguamente colpevole di ambiguità (assai cangiante) sulle questioni morali. Bah, il tono è ripugnante! Però la chiave di tutta l’intervista è nel “Scalfari ha danneggiato Repubblica”. In realtà è la complessa operazione di far diventare un quotidiano ispirato dal tagliagolismo più conseguente in una sorta di angelicato Le Monde diplomatique che sta incontrando qualche difficoltà a sfondare tra il pubblico, e questo innervosisce CDB che così a occhio ha chiesto alla ciurma più fedele di passare al contrattacco, di scorreggiare, ruttare, mettersi le dita nel naso, fare qualsiasi cosa pur di diventare brutti, sporchi e cattivi come si era un tempo.
Michele Serra, dalla sua, chiede pietà a chi non apprezza la controsvolta sporchista: “I lettori renziani (mi scuso per la definizione secca secca, ma è per capirci) non possono non tenere conto degli effetti divisivi che non solamente il carattere, ma anche gli atti politici di Renzi hanno prodotto nel vasto corpo dell’opinione pubblica di centrosinistra”, scusateci lettori renziani, dovremo ruttare un po’ per riconquistare il “vasto corpo dell’opinione pubblica di centrosinistra” dice sulla Repubblica del 12 dicembre.
Chi non chiede scusa ma il fa suo sporco lavoro è Francesco Merlo sempre sulla Repubblica del 2 dicembre: “C’è tutta la stanchezza dell’Italia in quella sua faccia guasta che ci fa rabbrividire” scrive Franceso Merlo. C’è tutta la guastatura di quella che un tempo era una penna leggera e raffinata e che adesso attaccando in questo modo Silvio Berlusconi conquista un posto in prima fila tra gli scorreggioni debendettiani.
Bel rutto antirenziano è quello di Massimo Giannini del 5 dicembre contro il politico di Rignano che “ha trasformato la Commissione parlamentare che indaga sulle crisi bancarie in un Tribunale del Popolo”. Ma va là! Renzi è un teppista e su questo concordiamo, ma Pierferdinando Casini alla testa di un tribunale del popolo questo è un rutto eccessivo.
Il povero Mario Calabresi non si arrende e scrive il 22 novembre “Non saranno i tweet a spiegarci dove va il mondo” in effetti la sezione esteri del quotidiano di largo Fochetti è, nonostante lo stile mortifero della grafica, molto migliorata, anche se uno quando legge certi articoli dei Rampini e degli Zucconi ha una sola possibile reazione: Arridatece i tweet!
E’ vero che ci sono giornaliste adatte al neo look lemondediplomatiquesco come Anais Ginori che sulla Repubblica del 7 dicembre se la prende con Jean-Luc Mélenchon e scrive. “In Francia come altrove la stampa e i giornalisti non sono esenti da colpe, errori, connivenze con il potere. Quando ci sono abusi della professione o notizie diffamanti devono rispondere davanti alla giustizia. Ogni riflessione o critica è benvenuta in un sistema multimediale, nel quale tende a sparire l’intermediazione e nessuno detiene più il monopolio delle notizie. Mélenchon preferisce cedere al facile insulto”. Ma la raffinata giornalista, poi, qualche pagina, dopo è subito sommersa dalla controndata dei brutti-sporchi-cattivi tipo il perfezionato lanciatore di sterco dall’Amaca che scrive, papale papale: Trump è uno “scemo”. E adieu! Così le lezioncine lemondediplomatiquesche sugli insulti di Mélenchon se ne vanno in soffitta.
Siate indulgenti con la sinistra-sinistra, evitategli almeno Revelli. “Ma io suggerisco di essere indulgenti con i protagonisti della sinistra italiana: sono capitati nel mezzo di una tempesta quasi perfetta, e forse non se ne rendono neppure conto” dice Marco Revelli a il Fatto del 27 novembre. Probabilmente la svolta a sinistra del vecchio nucleo del Pci bersanian-dalemiano è inevitabile. Così vanno le cose dove la sinistra mantiene un’iniziativa dalla Gran Bretagna al Portogallo, dalla Grecia alla Francia di Jean-Luc Mélenchon. A una sinistra italiana che si è comportata troppo spesso da gattino cieco, è giusto augurarle che la storia le offra almeno un po’ di indulgenza. Finora le è andata da una parte bene: pare, si sia risparmiata Giuliano Pisapia, dall’altra però non è riuscita a schivare Piero Grasso. E incombe Laura Boldrini. Ma che un dio benevolo le eviti almeno di farsi consigliare dal quel simpatico sconclusionato di Marco Revelli.
Quella politica che ottenebra la mitezza ebraica. “La mitezza che è una costante dell’animo ebraico quando non sia ottenebrato dalla politica” scrive Corrado Augias sulla Repubblica del 29 novembre. Tanto per ricordare ecco alcuni esempi della “politica” che via via negli anni ha ottenebrato la mitezza ebraica: i tank di Hafiz Assad, i jet di Gamal Nasser, le bombe di Yasser Arafat, gli assassinii di Hamas, le Katjuša degli Hezbollah, lo sterminio nucleare invocato dagli ajatollah.