Ma quale depresso! Leopardi aveva capito il valore dell’Infinito

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Ma quale depresso! Leopardi aveva capito il valore dell’Infinito

Ma quale depresso! Leopardi aveva capito il valore dell’Infinito

16 Luglio 2019

In questo periodo fa piacere scorgere tra cartelloni pubblicitari ed eventi Facebook numerose iniziative che ricordano e rimandano ad uno dei più famosi Canti del giovane conte di Recanati. Fa piacere perché si rimette in circolo il pensiero, si rinnova lo studio, si editano nuovi libri che cercano di ridar dignità ad una delle più eccelse menti che ha toccato abissi dell’animo umano, al di là di quell’indebita e quanto mai superficiale etichetta del poeta depresso che solo una mentalità gretta e inerte può ancora sostenere.

A duecento anni dalla stesura de L’Infinito, la vibrazione emessa da quel “Sempre caro…” sembra ancora racchiudere la forza magnetica per riattivare qualcosa di intimo, anche fosse solo il ricordo di parole meccaniche imparate a forza tra i banchi di scuola. A forza, per carità! Ripetere una poesia a pappagallo ha la stessa enfasi dalla voce di Google Traduttore che legge una lettera d’amore. Però è rimasto! In questo soggettivismo esasperato si demonizza il ripetere a memoria in quanto spersonalizzante. Ma per secoli si sono tramandati racconti, canti, poesie, miti a memoria. La cultura è un ripetere che si riperpetua e si rinnova ripetendosi come un circolo ermeneutico, che rimpasta le stesse cose e le risignifica. Oggi nel regno di Narciso la moda è sentirsi un po’ tutti eccentrici, trasgressivi (e già questo è un ossimoro) ma dovremmo ricordarci che non esiste sapere originale nel senso che nessun autore o scienziato parte mai da zero. Il genio Leopardi, e come lui tanti, non sarebbe esploso se non si fosse forgiato anche in quei “sette anni di studio matto e disperatissimo” nella biblioteca paterna ricca di sedicimila volumi.

Se da una parte è apprezzabile questo “riacquisto di memoria”, dall’altra si avverte la fastidiosa sensazione che il tutto rischi di tradursi in un vorace vagabondaggio da un festival all’altro, tra eventi e programmi, per passare una serata estiva a tema da vivere perché questo è l’anno dell’Infinito leopardiano e fa quasi chic essere interessati a lui fintanto che la moda non passi e non si venga inghiottiti nella prossima baraonda culturale, dimenticando quella precedente. Senza offesa per chi partecipa (anche io lo faccio), organizza (fa benissimo) o presenzia (molto bravi), però, di fatto, bisogna riconoscere di trovarsi in questo “presente egemonico”, per dirla alla Augé, dove il tempo della vita quotidiana è appiattito e dilatato, appunto, in un eterno presente e dove tutto si rincorre senza rincorrere niente, in un frenetico movimento a vuoto, proprio per occupare il vuoto che la società consumistica produce. E anche il mondo della cultura purtroppo sembra relegato a questo, una proposta come tante, utile fin tanto che emerge, è un ritaglio di tempo che ci si può permettere a patto che non tolga troppo spazio ed energie alle cose veramente serie e pratiche, quelle che, come si dice, ti “portano la pagnotta a casa”.

Espressioni tipo: “tu filosofeggi, io invece sono concreto”, “a che serve studiare il latino e il greco se sono lingue morte?” ecc. non fanno una piega. Ebbene questo modo di pensare è esattamente il frutto di quell’indaffaratissimo mondo piccolo-borghese contro cui Leopardi, in nome di una rivoluzione totale, si è scagliato con tutto il vigore irridente della sua satira e del suo sdegno. Soprattutto nello Zibaldone e nelle Operette morali individuerà nella politica del suo tempo, l’economia, la statistica, i simboli della miseria moderna che porteranno ad una realtà illusoria, una civiltà arida di cuore e di passione, in quanto capisaldi di una società che si stava formando sulla menzogna del mito positivista del “progresso”. Questo non solo non portò alla tanto agognata liberazione dell’uomo dall’oppressione religiosa ma, con la distruzione del sacro, avviò un processo irreversibile che sfociò, come sappiamo, nell’orrore totalitarista. Va da sé che se si elimina il concetto del sacro anche l’uomo non ha più alcun valore. La sua critica verterà anche verso uno sciocco spiritualismo che devìa da una vera metafisica e verso quel moderatismo cattolico bigotto, che smorza gli slanci vitalistici avvilendo la società rispetto alla grandezza della civiltà classica. In una lettera al padre Monaldo del 1819 dichiarerà: “Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero”.

Altro che il piccolo poetucolo depresso perché aveva la gobba! Quanto coraggio nel gridare: “Voglio piuttosto essere infelice che piccolo”.

Il punto è proprio la felicità. Come suggerisce Neuro Bonifazi, ciò che Leopardi vede è il cammino dell’uomo ottocentesco verso la sua colpevole autodistruzione nel momento in cui segue il suo calcolo di utilità (che definisce di volta in volta cognizione, sapere o ragione), che conduce di conseguenza alla noia e alla infelicità. Che poi in fondo chi lo ha detto che deve essere tutto perfettamente controllabile e definibile? Già a quel tempo Giacomo aveva capito che è un altro il progresso di cui l’uomo ha bisogno veramente, e non è certo quello tecnico. Questo accresce semmai una conoscenza di tipo informativa, e va bene. Ma è come voler stringere relazioni intime studiandosi a memoria il curriculum dell’altro, per quanto dettagliato possa essere! Che tristezza.

L’infinito, invece! L’infinito è la chiave. Ma è da intendersi nel senso di in-definito, perché non comprimibile nelle strette logiche razionaliste. In-controllabile come una antica reminiscenza che “sovvien” senza avvisarti e ti blocca in un istantaneo ma eterno “sovrumano silenzio”. Sfocato come l’orizzonte che sarà sempre “ultimo” perché si raggiunge solo con l’occhio ma poi anche l’occhio non lo raggiunge mai. Infinito come ogni uomo che non è determinato o determinabile e quindi replicabile perché è un pezzo unico, è mistero anche a se stesso, è il Segno, come ci ricorda Davide Rondoni, cioè punto di incontro tra il finito e l’infinito perché capace di autocoscienza. Certamente Leopardi è e rimane un materialista ma la sua ricerca dell’Infinito è in fin dei conti il desiderio di un ritorno alla vera realtà dell’uomo che è quella creaturale.