
Ma quali Dem! Gli avversari di Trump saranno i big della Silicon Valley e Soros

05 Agosto 2019
I più recenti dibattiti televisivi tra gli innumerevoli candidati alle primarie del Partito Democratico statunitense in vista delle presidenziali del 2020 hanno offerto un quadro assai problematico dell’area dalla quale dovrà uscire l’anno prossimo lo sfidante di Donald Trump.
L’impressione lasciata dalle due serate di affollato confronto è quella di un partito frammentato, chiuso in se stesso, che parla solo ai convertiti. Un partito in cui l’agenda viene dettata sostanzialmente dalla sinistra più radicale (Sanders, la Warren, e vari altri minori) e le voci moderate (il favorito Biden, ma anche Buttigieg) suonano flebili e poco convincenti. In cui al centro della discussione ci sono proposte destinate inevitabilmente ad essere impopolari presso la grande maggioranza degli elettori, come l’assistenza sanitaria statale universale (Medicare for all) o la depenalizzazione dell’immigrazione illegale, mentre sembrano del tutto assenti riflessioni su temi avvertiti come centrali dall’opinione pubblica, come l’occupazione, il rilancio dell’economia, la pressione fiscale per aziende e famiglie.
Insomma, per ora dalle fila dei Democrats non pare emergere nessun protagonista potenzialmente in grado di impensierire Trump, la cui popolarità è attualmente sostenuta dai risultati molto brillanti dell’economia (proprio di questi giorni sono i dati che indicano un’ulteriore crescita dell’occupazione oltre i dati già record dei mesi scorsi) e dalla diffusa sensazione che su temi come la sicurezza, l’immigrazione e la politica internazionale la linea decisa tenuta dal presidente in carica si sia dimostrata efficace. I Democratici sembrano anzi più che altro tentare di farsi del male da soli, offrendo a Trump innumerevoli, facili occasioni di affondare il coltello nella piaga. Come si è visto ultimamente con il ruvido scontro tra il presidente e la cossiddetta squad (il quartetto di deputate “pasionarie” composto da Ocasio Cortèz, Omar, Pressley e Tlaib), in cui Trump ha avuto buon gioco a schiacciare l’intera classe dirigente Democrat sul rumoroso estremismo “antiamericano” delle sue avversarie, accreditandosi come garante dei sentimenti patriottici feriti dell’opinione pubblica.
Se nelle presidenziali del 2016 era emersa in tutta la sua evidenza la crisi profonda dei due grandi, storici partiti statunitensi (entrambi “espropriati” da cordate “private” come quelle di Trump e della Clinton), oggi si può verosimilmente affermare che i Repubblicani si sono ricompattati sotto l’egida del “trumpismo” (pur permandendo alcune sacche di resistenza del vecchio establishment) mentre al contrario i Democratici appaiono sempre più lontani dall’obiettivo di selezionare una guida politica efficace in grado di parlare alla maggioranza del paese. Ridotto ormai alla rappresentanza di una borghesia urbana concentrata in poche aree dell’Unione (California, metropoli della costa Est) il partito dell’Asinello come finora lo abbiamo conosciuto pare avviato verso un declino simile a quello patito dalle socialdemocrazie del Vecchio Continente, ormai sempre più estranee ai nuovi, grandi spartiacque politici dell’Occidente nel mondo globalizzato.
E infatti, come è apparso evidente più volte in questi anni, il vero antagonista politico del “sovranismo” trumpiano non sono più tanto i Democratici quanto il “partito di Silicon Valley”: il blocco economico e sociale delle grandi corporations digitali, vera “nazione nella nazione”, punta di lancia del globalismo liberal in Occidente. E’ solo da quel blocco che, allo stato attuale, potrebbe venire una leadership alternativa a Trump dotata di almeno pari livello di riconoscibilità e autorevolezza.
Ciò significa che in un prossimo futuro le grandi corporations digitali che dominano il “CEO capitalism” potrebbero lanciare una nuova Opa sul Partito democratico, mettendolo al servizio di un proprio candidato scelto tra i super-manager più carismatici. O addirittura costruire una nuova formazione politica in grado di innovare lo storico bipartitismo non proponendo l’ennesimo candidato “indipendente”, ma sostituendo tout court i Democrats con uno schieramento più allineato rispetto alla grande faglia globalismo/nazionalismo. Uno scenario che appare via via più realistico, anche alla luce di una novità che potrebbe avere conseguenze rivoluzionarie e destabilizzanti a livello interno ed internazionale, come la creazione della moneta “Libra” da parte di Facebook: primo esempio di una valuta “privata” che prova a sfidare quelle di Stato, ed in primo luogo ovviamente la Federal Reserve statunitense.
Inoltre verosimilmente nella nuova articolazione del conflitto politico americano al “partito di Silicon Valley” si aggiungeranno le forze di colossi della finanza e della filantropia, tra i quali la punta più direttaente impegnata in politica da tampo è costituita dalla “Open Society” di George Soros, infaticabile finanziatore di partiti e movimenti progressisti in giro per l’Occidente. Quel Soros che – la notizia è di queste ore – ha appena investito 5 milioni di dollari in un grande “Pac” destinato a finanziare i Democratici nella corsa elettorale dell’anno prossimo. Un investimento ingente, ma che con tutta probabilità rappresenta soltanto l’inizio di un massiccio impegno economico su un obiettivo – quello di sconfiggere Trump – considerato primario dal magnate di origini ungheresi, e probabilmente da altri grandi finanziatori pronti sulla sua scia ad entrare a loro volta in azione.
Si tratta di un indizio dell’evoluzione della dialettica politica statunitense nella direzione che abbiamo indicato. Si tratta di vedere su quale candidato confluiranno questi ingentissimi finanziamenti. E appare difficile pensare che possa trattarsi di Biden, o di altri attuali comprimari dell’Asinello.