
Ma quant’è bello l’utero in affitto!

16 Giugno 2016
E così, anche l’utero in affitto è legittimato, narrato con accenti deamicisiani, collocato all’interno di buoni sentimenti. Un nido di dolcezza assediato dalla ferocia del mondo, minacciato da un’acidità maligna e grottesca; insomma, ci vuole un cuore di pietra per non commuoversi al racconto. L’intervista è tutta giocata sui toni emotivi, empatici, tutto è bello, buono e pulito, e non si può che concludere che il bimbo è stato molto fortunato ad essere tolto alla mamma, che nascere grazie a un contratto è il modo migliore di venire al mondo, vuoi mettere con la casualità del concepimento naturale, che poi chissà con quali genitori puoi capitare, invece che con una coppia così adeguata e fotogenica.
Repubblica esalta un Vendola protettivo ed eroico che difende il piccolo Tobia: “non permetterò che il mondo gli diventi ostile appena tenterà di entrarvi”. Ma nessuno proverà ostilità nei confronti del bimbo, che sarà, semplicemente, un bimbo come tutti. Il più grave atto di ostilità l’hanno messo in campo Vendola e il suo compagno, togliendogli la mamma. E se deamicisiani dobbiamo essere, allora ci basta pensare alla nostra esperienza di genitori e di figli: una mamma non è solo il corpo (asettico e straniato) che contiene per nove mesi l’embrione, e poi lo partorisce. E’ una persona, che con quell’esserino dentro di sé interagisce e dialoga in mille modi, lo nutre, lo custodisce, ha con lui scambi biologici ed emotivi, e quando lo mette al mondo il cordone ombelicale che lega madre e figlio va tagliato, simbolicamente e fisicamente, ma il rapporto non si può recidere.
Si è madri per sempre, e si è figli per sempre. Il bimbo cerca il seno, la voce, l’odore della mamma, il battito del suo cuore che lo ha accompagnato nel buio caldo del grembo in cui cresceva. Ne ha bisogno per sentirsi protetto, rassicurato, perché il riparo istintivo dell’abbraccio materno gli consentirà di rendersi conto della propria individualità, di diventare grande e autonomo.
Si possono dire mille cose per mascherare tutto questo – e nell’intervista sono state dette tutte, con consumata abilità retorica –, ma ognuno di noi sa bene, dal fondo della propria esperienza, che tanti luoghi comuni sulla maternità sono veri, che di mamma ce ne è una sola, o almeno, una sola ce ne dovrebbe essere. Invece no, si comprano gli ovociti da una biobanca, consultando con attenzione il catalogo e selezionando una “donatrice” giovane, sana, bella e bionda. Certo, il prezzo sale, ma il patrimonio genetico deve essere di buona qualità, perché è a questa mamma che il bimbo assomiglierà. Poi si cerca una seconda signora, che possibilmente abbia già avuto figli e sia disposta a una gravidanza per conto terzi.
Questa può essere anche di etnia diversa dal committente, ed è facile che lo sia, perché è raro che una donna benestante e di pelle bianca si presti alla surrogacy. Nei contratti si inserisce anche l’allattamento al seno per qualche mese, oppure la mamma surrogata deve fornire il latte come un completamento del servizio, come è avvenuto nel caso di Vendola. Si sa infatti che il legame madre-figlio è così stretto che il latte della mamma è unico, prodotto apposta per quel bambino. Ma questo, invece di far concludere che il bimbo va allattato al seno, porta solo a una clausola contrattuale ulteriore, a un nuovo obbligo per la donna.
E’ un mercato molto ben organizzato, ci sono avvocati, medici, banche, società di intermediazione, e insomma tutto un mondo di vero business, che muove tanti soldi e fa affari d’oro. E’ il mercato, bellezza, che oggi ha scoperto un nuovo campo di attività, quello del corpo e della procreazione. E’ il biolavoro: le aziende non chiedono più tanta manodopera, il lavoro cambia e diventa più sofisticato e tecnologico, ma ci sono nuove forme di “occupazione” e di sfruttamento, per cui si mette a disposizione il proprio corpo. Un corpo che ha valore se è sano, se ha caratteristiche genetiche per cui i committenti sono disposti a pagare. Le donne che accettano di fare da madri surrogate si sforzano di vivere la gravidanza senza legarsi al bimbo che hanno in pancia, ripetendosi mille volte che non è loro, ma di chi ha sborsato quei venti o trentamila euro così necessari, che magari servono per mandare l’altro figlio all’università.
Chissà che meravigliose parole avremmo sentito contro questa organizzazione affaristica dal Nichi Vendola di una volta, quello che tuonava contro lo sfruttamento del corpo femminile e contro il liberismo selvaggio! Ma i tempi sono cambiati. I propri desideri personali valgono più di tutte le idee, e le giustificazioni si trovano con facilità, anzi ci sono fior di giornalisti, di personaggi della politica e della cultura pronti a trovarle per te. Un bel racconto, questo di Repubblica, davvero commovente.