Ma siamo sicuri che è tanto brutto il Novecento?

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Ma siamo sicuri che è tanto brutto il Novecento?

19 Agosto 2009

E’ difficile tenere il conto di quanti hanno descritto le malefatte del secolo appena concluso: una piccola folla di scrittori, di studiosi appartenenti a varie discipline, si è applicata a mostrare quanto esso sia stato cattivo, sanguinario, razzista, classista, rivoluzionario, reazionario, omologante, differenziante, umano, antiumano, disumano, oggettivista, soggettivista, superficiale, abissale, volgare, materialista, economicista, volontarista, soggetto alle mode, globalizzante e localista, a seconda dei gusti, delle scuole, dei giudizi e pregiudizi di chi lo ha osservato. A questo compito si applica anche Alain Finkielkraut.

Con una differenza rispetto a coloro che lo hanno preceduto: gli altri di norma avevano un’idea in base alla quale giudicavano il Novecento non perfettamente riuscito, non all’altezza dei tempi alti della storia, oppure decisamente una catastrofe. Il nostro autore invece ne ha molte, tratte dai principali autori che si sono occupati di questo tema, e le mette insieme. Risultato? Un pot-pourri di tesi e controtesi sul XX secolo frullate fino a che ognuna abbia perduto la sua specificità e si sia dissolta in una crema di banalità tale da ammorbidire e rendere irriconoscibili le tesi dei vari Martin Heidegger, Hannah Arendt, Zygmunt Bauman e degli altri autori che si sono occupati degli errori, dell’essenza, del destino del XX secolo. Tutte queste sono tesi discutibili (come tutto ciò che viene affermato lo è), ma hanno il pregio di essere ben individuate, inconfondibili con quelle di qualcun altro. Questi autori hanno legato il proprio nome alle loro diagnosi epocali: chi per la tecnica come destino dell’Occidente, chi per il totalitarismo e le sue origini dottrinali, chi per la globalizzazione e le sue malefatte. Ci chiediamo che senso abbia, invece, prendere un po’ dell’una e un po’ dell’altra rendendolo una lamentazione molto ampia ma anche molto generica sulla contemporaneità.

La diagnosi dell’autore è la seguente: il Novecento ha perduto l’idea di umanità. Tutto qui? – si chiede il lettore. Dopo funambolismi, giravolte e scavi, nel XX secolo sono stati rinvenuti gli elementi più vari, e questa tesi appare già letta, già ascoltata, già digerita, in qualche modo (pur nel suo essere terribile) prevedibile e scontata. A parere dell’autore, è venuta a cadere la nozione di umanità universale: questo è accaduto proprio là dove l’idea di tale umanità era sorta e aveva raggiunto il suo sviluppo più spettacolare. Il riconoscimento nell’altro di un essere umano non è affatto qualcosa che venga naturale, ma è un risultato storico al quale si è pervenuti attraverso i secoli. Finkielkraut ripercorre questo sforzo ricostruendolo da San Paolo fino a Primo Levi, attraverso Bartolomeo de Las Casas, Pascal, Montaigne, e fermandosi sulla tappa dell’uomo democratico descritto da Tocqueville. Il XX secolo, di contro, per eseguire i suoi stermini e  portare a termine le sue infamie, ha bisogno di considerare coloro che stermina come non-uomini, utilizza l’uomo, lo applica al lavoro industriale, e poi lo fa fuori: “Rendere redditizio, liquidare: nei due casi si applica lo stesso trattamento industriale. Il XX secolo dispiega la ragione strumentale sopra la morale e il senso comune. Così, giunge a termine l’unità del genere umano, la solidarietà della specie, la comunanza di natura e di destino di tutti gli uomini indistintamente.” Olocausto e sistema industriale hanno – secondo Finkielkraut – la stessa matrice: per realizzare l’uno e l’altro c’è bisogno di far scomparire l’idea secondo la quale l’uomo è il simile dell’altro uomo. Anche su questa tesi si è scritto molto anni fa, e sempre tirando in ballo la ragione strumentale dei francofortesi: quel tipo di ragione che guida il mondo sviluppato al dominio della terra e alla sottomissione degli esseri umani, e che a questo scopo assume la forma ora di società liberale e democratica, ora di sistema industriale avanzato, ora di nazismo.

Sul tema della Shoah, che indubbiamente si è verificata nel XX secolo, così come si sono verificati in quell’epoca l’orrore delle purghe e dei gulag staliniani, abbiamo in questo libro la banalizzazione delle opere sofferte e intelligenti di Jean Améry o dei dissidenti sovietici. Ma le pagine che sicuramente colpiscono di più sono quelle finali, nelle quali, dopo aver scomodato Nietzsche e Freud, Marx e Dostoevkij, Lévinas e Aron, e tutto quell’insieme di tesi epocali che abbiamo ricordato, Finkielkraut scopre che siamo preda della globalizzazione, informatica prima di tutto. A questo punto i luoghi comuni si fanno valanga: “Grazie al fatto che la tecnologia ha messo fuori gioco la topologia, l’esperienza umana, troppo umana, del vicinato cede il posto all’ebbrezza olimpica di un’universale equidistanza. L’uomo non è più legato al suo dialetto, è planetario. Il suo ambiente immediato non è più locale, è digitale. Era legato a un territorio, ora è collegato alla rete e non sa che farsene delle autoctonie. L’inerenza al mondo era il suo destino, lo spettacolo e la convocazione del mondo segnano il suo accesso alla libertà. Cibernauta e fiero di esserlo, egli abbandona l’oscena materialità delle cose per le delizie senza fine di uno spazio immateriale.  (..) Era gravato da una memoria più vecchia di lui, che l’obbligava pur rendendolo particolare; ora, è liberato dal fardello del passato, dall’invadenza dei ‘già là’, da questa intima alterità, da questa ferita pregiudizialmente inflitta al sogno di autarchia e da questa presenza di morti all’interno di sé, che si chiama – senza dubbio per antifrasi – identità.” Ora tutti possono scegliere che cosa essere, dove essere, in quell’enorme supermercato che è divenuto il mondo unico, il mondo a disposizione: assistere a qualunque cosa dalla propria poltrona, fare shopping dall’altra parte del mondo, non essere più radicati da nessuna parte in particolare. Questo significa che “la qualità di turista sostituisce a poco a poco nell’uomo quella di abitante e che si annuncia un’era in cui ciascuno, aboliti al tempo stesso distanze e destini, potrà essere, in condizioni di eguaglianza, il visitatore di ogni cosa.”

Sulle tesi proprie dei vari grandi autori citati non leggiamo nessuna chiosa originale; sul nostro mondo globalizzato non impariamo niente di nuovo, se non il suo non gradimento da parte dell’autore; sulla planetarizzazione dell’io, sulla rete informatica, sulla smaterializzazione delle cose e la scomparsa dello spazio, sul divenire turista dell’uomo d’oggi, sulla disumanizzazione, sull’insorgere del germe totalitario – tesi tutte mischiate fra loro e unite solo dalla deprecazione del male novecentesco –  troviamo una serie di commenti banali.

A volte quello che ci sentiremmo di chiedere agli editori è solo un po’ di cautela nelle traduzioni.

A. FINKIELKRAUT, L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo, trad. it. Torino, Lindau, 2009, pp. 149, euro 14.