Ma sulla critica alla globalizzazione D’Alema fa come Corbyn?

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Ma sulla critica alla globalizzazione D’Alema fa come Corbyn?

17 Ottobre 2017

Della corbynizzazione di D’Alema. Come tutti i leader della sinistra occidentale, D’Alema ha partecipato alla fase clintoniana della sinistra, caratterizzata, in particolare, da una visione esclusivamente positiva della globalizzazione” così Peppino Caldarola su Formiche dell’11 ottobre descrive in modo convincente l’autocritica politica di un D’Alema, con cui si può (e io lo sono) essere in disaccordo anche profondo ma di cui non si può non dire che (al contrario di un Renzi o di un Veltroni, per esempio) non articoli compiutamente il proprio pensiero politico (magari killerando “politicamente, naturalmente”, con indubbio merito, anche personaggi strampalati come Achille Occhetto).

Aho! Se ritorna la “Cortina di ferro”. Una nuova cortina di ferro rischia di dividere l’Europa” con questi toni particolarmente misurati Tonia Mastrobuoni riflette, sulla Repubblica del 17 ottobre, sulla vittoria del popolare di destra, Sebastian Kurz (con annesso ottimo risultato elettorale del FPÖ), in Austria. Già ieri, sempre sullo stesso quotidiano, la Mastrobuoni si era stupita perché il leader dei liberalnazionalisti “Strache ha già fatto sapere che vuole girare le spalle a Bruxelles per allearsi con Budapest”. In effetti ciò è sorprendente: in fin dei conti dai Paesi Bassi l’allora dinastia asburgica si separò appena nel 1555 quando Carlo V li passò in eredità alla Spagna del figlio Filippo II,  cioè ciò avvenne in un’epoca abbastanza vicina a quel 1918 quando l’Ungheria si rese indipendente da Vienna. Il bello della melassosa retorica ultraeuropeistica in cui stiamo sopravvivendo è che non esiste più il popolo (“un’invenzione” spiega Nadia Urbinati sempre sulla Repubblica del 17 ottobre e anche lei assai misurata parla pure di movimenti con una fisonomia “perfino nazifascista”), la storia (l’orripilante uso dei termini nazifascista e analoghi è un particolare segno della perdita del senso dei tempi), le dinamiche dalla lunga durata, c’è solo quello che Stefano Folli sempre sulla Repubblica del 17 definisce “il cuore tedesco” del Ppe (da non abbandonare), c’è l’affidarsi a quello strano mercato ben ingabbiato dal cripto protezionismo dell’Unione e dai cripto statalismi di Germania e Francia (da cui le arroganti trattative con la Gran Bretagna sulla Brexit che paiono particolarmente disinteressate al mantenere almeno di un regime di libero scambio con Londra), ci sono “le oligarchie” invocate da Eugenio Scalfari (domenica scorsa sempre sul quotidiano da lui fondato) come vere detentrici del potere reale al di là delle utopie alla Guastavo Zagrebelsky che vorrebbe contassero gli elettori.

Se Gramellini diventa alfiere dell’anticonformismo. Trump è un marchio di infamia insultarlo equivale a un paternoster che monda da ogni peccato” scrive Massimo Gramellini sul Corriere della Sera del 12 ottobre. Il brillante opinionista già della Stampa e oggi corrierista, è un ottimo erede di un certo giornalismo effervescente e soprattutto efficacissimo per la sua lingua, non privo di una sua particolare attenzione alle “opinioni più perbene”. Verrebbe da paragonarlo a un Enzo Biagi. Un giornalismo che, appunto come quello di Biagi, tende a confortare il lettore, sia pure con ironia, in alcune sue certezze piuttosto che spaventarlo con analisi audaci. Devono, dunque, essere i nostri tempi assai duri per l’anticonformismo, se proprio uno come Gramellini deve intervenire (sia pure poi premunendosi di esorcizzare alcuni aspetti del Potus) per criticare certo monomaniacale antitrumpismo

C’era una volta la Turchia. In recent years, however, the relationship between Turkey and the United States has deteriorated dramatically. Mr Erdogan has violated basic civil liberties and other democratic norms”. Un autorevole editoriale del New York Times del 14 ottobre richiama le degenerazioni del regime erdoganiano in tema di diritti civili e norme democratiche, indicando in questi fattori l’insorgere della crisi dei rapporti tra Ankara e Washington. Descrivere la Turchia ataturkiana come il regno della liberaldemocrazia (temperata ogni qualche tempo da calibrati colpi di Stato militari) può venire in mente solo a cantori (dimentichi della durezza geopolitica della Guerra fredda) di quell’ispirazione a un irenistico ordine globale politically correct che ha trovato il suo massimo pontefice in Barack Obama e proprio nell’ex impero bizantino uno dei terreni per sperimentarne i peggiori pasticci: prima usando Recep Tayyip Erdogan per destabilizzare l’Egitto, poi, fallita questa avventura, tentando di destabilizzare Ankara con il profugo negli Stati Uniti, grande protettore di settori di magistrati e poliziotti, Fethullah Gülen, infine con un tentato golpe partito da una base Nato. Persino un punto di vista liberal e politically correct potrebbe essere sorretto da analisi un po’ meno strampalate su quel che succede in Anatolia e dintorni.