Ma Veltroni dovrebbe spiegarci quali valori hanno diritto di cittadinanza nel Pd
18 Gennaio 2008
Non conosco
molto di Walter Veltroni, del suo pensiero e della sua evoluzione politica. Lo
ricordo giovane dirigente della FGCI, poi direttore dell’Unità.
So che
afferma di non essere mai stato veramente comunista, ma mi sembra arduo che
possa negare di essere stato, per decenni, almeno un “comunista italiano”.
Questa militanza si avverte nel modo,
sostanzialmente equilibrato, in cui tratta dei rapporti fra religione e
politica: perché se ci fu un partito in Italia (eccetto, ovviamente, la DC) in cui si rifletté
continuamente e con impegno della questione religiosa, che da noi allora
significava eminentemente “questione cattolica”, questo è stato il PCI di
Togliatti e Berlinguer (ma anche di Bufalini e di Natta).
Delle volte mi chiedo
come la nouvelle vague anticlericale
e, talora, antireligiosa che è montata negli ultimi anni sarebbe stata
giudicata da uomini come loro, che,
dalla cultura storicistica di cui erano imbevuti, avevano imparato a
comprendere il ruolo che le fedi religiose svolgono nella vita morale e sociale
dei popoli.
Ma ricordo anche la “profezia” di Augusto Del Noce secondo cui
dalla “inevitabile” decomposizione del marxismo sarebbe scaturita una cultura
“radicale” destinata a diventare egemone
anche negli ambienti politici, sociali e culturali in precedenza orientati dal
PCI: insomma il salto da Lucio Lombardo Radice (per ricordare uno degli
intellettuali comunisti più aperti al confronto con la problematica religiosa)
a Barbara Pollastrini è stato enorme, ma forse non casuale.
Mi sembrano,
così, sensate e condivisibili le critiche del sindaco di Roma alla riduzione
della religione a fatto esclusivamente privato, le sue osservazioni
sull’esigenza che “la laicità dello stato (…) [non] presupponga una sorta di
rinuncia alle identità di ciascuno” e sul rapporto fra identità e dialogo. Non
risulta molto originale (ma ha tuttavia ragione) nel denunciare certe derive
identitarie che si sono messe in moto o accelerate dopo l’11 settembre, mentre
è importante il suo rilievo che il dialogo (inevitabile e necessario) “ha senso
se ci sono tante identità. E se qualcuno afferma e difende queste identità”.
Che questo coniugare identità e dialogo sia uno dei grandi problemi dei
prossimi decenni, per il quale non ci sono soluzioni facili, può sembrare
lapalissiano, ma – come si suol dire – repetita juvant.
Più conforme a una cultura à la Ezio Mauro appare, invece, il suo giudizio sul cattolicesimo
contemporaneo, nel suo scorgere una contraddizione fra “la vocazione pastorale
della chiesa” (che egli esalta) e una “chiesa che ogni giorno sforna
prescrizioni morali di comportamento”. Nel magistero di Giovanni Paolo II, “le
invettive contro il capitalismo egoista”, la denunzia dello strazio
dell’Africa, l’impegno per la pace e il dialogo tra le religioni (tutte cose
che piacciono al sindaco) erano indissolubilmente legati alla critica del
libertinismo di massa e alla ripetuta e veemente condanna dell’aborto: la sua
era una posizione complessiva, fondata su una precisa concezione antropologica,
da cui Veltroni e compagni hanno invece estrapolato solo ciò che era funzionale
al loro discorso politico, mettendo in sordina il resto. Che talora il
magistero ecclesiastico abbia stentato e stenti tuttora a mettere pienamente in
luce i principi che fondano le sue “prescrizioni morali” e che ciò rischi di
farle apparire come pure forme di moralismo, può essere vero: ma un leader politico delle
ambizioni di Veltroni non può permettersi di ignorare come nelle posizioni
degli ultimi pontefici (piaccia o no) tout
se tient.
Veltroni –
l’abbiamo appena visto – ritiene essenziale coniugare identità e dialogo nelle
nostre società multiculturali: ma ritengo che si debba impegnare seriamente
affinché essi vengano continuamente coniugati anche all’interno del suo nuovo
partito, anch’esso, in qualche modo, una società multiculturale.
E’ in
quest’azione che si dovranno valutare le sue capacità di leader, nel mettere in pratica con decisione e nettezza le regole
auree che regolarmente enuncia. Qui non se la potrà cavare con distinzioni
“gesuitiche”, come quella che opera a proposito del “voto di coscienza” della
senatrice Binetti: fra una libertà di coscienza che in linea di principio non
può essere compressa da nessuno e un impegno a lasciare in vita il governo che,
tuttavia, deve prevalere su ogni dubbio. Se uno introduce una casistica per
valutare quando la libertà di coscienza sia accettabile o meno, è evidente che
il principio va a farsi benedire.
A proposito,
poi, della senatrice Binetti, va aggiunta un’altra osservazione: chi ha un po’
di memoria storica del dibattito politico-culturale che si è sviluppato in
Italia nell’ultimo mezzo secolo, può confermare che ciò che si è scritto e
detto recentemente sulla sua personalità
e le sue convinzioni costituisce un salto di qualità rispetto alla polemica
politica precedente. Mai si erano visti illustri giornalisti mettere in
discussione il diritto di chicchessia di pregare dove, quando, per qualunque
cosa uno voglia, l’eventuale congruità o meno di tale preghiera essendo un
problema che riguarda solo il rapporto di costui col Padreterno; mai si erano
uditi scherni così pesanti e generalizzati verso forme di penitenza e di
devozione, quali il cilicio, che riguardano solo chi decide di metterle in
pratica.
Anche qui siamo di fronte a problemi di coscienza e di libertà di
coscienza e, anche su questi problemi, il sindaco di Roma dovrebbe non solo
parlare, ma operare con decisione e dimostrare nei fatti se la cultura di cui è
espressione la senatrice Binetti abbia o no diritto di cittadinanza all’interno
del Partito democratico: non come soprammobile, ma per contarci qualcosa.