Magdi Allam  non ha pretese di verità unica, i professori che lo attaccano sì

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Magdi Allam non ha pretese di verità unica, i professori che lo attaccano sì

25 Luglio 2007

L’individuazione di una sede di “laboriosa e
approfondita opera di istruzione e addestramento all’uso delle armi e delle
tecniche di combattimento” nella moschea Ucoii di Ponte Felcino, apprezzata
località agrituristica dei dintorni di Perugia, rende acuta la necessità di
riflettere non tanto sulla nostra capacità investigativa, che è da tempo di
alto livello, ma sui nostri criteri politici e culturali di individuazione del
rischio islamista. Sulla identificazione dell’islam come antagonista culturale
e nemico geopolitico, concorrono e si contaminano tesi diverse, tra due
estremi.

Da un capo, si assume che la conflittualità islamista, anche non
terroristica, sarebbe una prova di forza cui siamo sottoposti dalle formazioni
musulmane anti-occidentali, un estenuante sondaggio della nostra capacità di
resistenza ovvero disponibilità alla resa rispetto ad un progetto o processo di
islamizzazione. Corollario: a questa sfida, in qualsiasi forma si esprima,
bisogna replicare, con mezzi idonei, su tutti i terreni interni e
internazionali. Al capo opposto, si preferisce parlare di “reazione”
dell’islam. La conflittualità islamista è interpretata come il portato di una
storia anche recente di aggressioni occidentali al mondo arabo e vicino
orientale; la responsabilità ultima sarebbe quindi nostra, e nostro (e
anzitutto interno alle nostre società e politiche) l’onere di disinnescare la
minaccia.

Una querelle
recente, che ha coinvolto Magdi Allam, mi pare esemplare della difficoltà
comunicativa tra conoscitori simpatetici (per lo più filoarabi e antiamericani)
e “cassandre”, non meno dotate di conoscenze e per questo in allarme. Com’è
filtrato attraverso la stampa, il mensile Reset (n.102, luglio-agosto 2007) diretto da
Giancarlo Bosetti ha pubblicato una lettera contro il recente libro di Allam, Viva Israele. Tra i primi firmatari Pino
Branca, professore all’Università cattolica, e il saggista ebreo David Bidussa
(e altri, da Ombretta Fumagalli Carulli agli storici contemporaneisti Alberto
Melloni, Agostino Giovagnoli, Angelo D’Orsi e Giovanni Miccoli, dall’ebraista
Paolo Debenedetti alla poetessa Patrizia Valduga).

Il documento, sottoscritto poi da oltre duecento firme,
incluse quelle di moltissimi universitari, denuncia “la sfrontatezza di chi
afferma che le università italiane ‘pullulano’ di docenti ‘collusi con
un’ideologia di morte [quella jihadista e terroristica pdm] profondamente ostile ai valori e ai principi delal civiltà
occidentale ecc.’ [la citazione è dal libro di Magdi Allam]”.

Il profilo della lettera, un genere dilagante in questi mesi
(e le firme talora si ripetono!) è quello di una levata di scudi per la libertà
accademica. Altrove le stesse firme intevengono per la libertà di critica nella
Chiesa cattolica, per la laicità e il pluralismo; curiosamente la sollecitudine
di Boselli e l’economia del ricco fascicolo di Reset (che ospita anche una discussione sul cattolicesimo come
-auspicata- minoranza), sembrano
mettere in serie queste occasioni diverse.

La lettera esprime, in forma contenuta, una reazione che si
intravede violenta e estesa, ma proprio per questo non sfuggono al lettore dei
passaggi singolari. È proporzionato connotare Magdi Allam come portatore di
“una pretesa unica ‘verità interpretativa’ [perché mai questa formula? pdm]” che condannerebbe i sostenitori di
posizioni differenti a divenire “automaticamente estranei a universali valori
di civiltà o, addirittura, alieni dalla comune umanità”? Ogni attore ha nella
sfera pubblica un suo genere di autorità comunicativa e ad un opinionista non
appartiene rivendicare “pretese di verità unica”; né Magdi Allam lo fa. Avviene
più spesso ai professori. Scorrendo queste formule fuori luogo sembra di aver
davanti l’estratto di una lettera (magari rimasta nel cassetto; ma non vi è una
eco della lettera dei laici alla chiesa torinese?) di doléances verso Benedetto XVI o il governo del Card. Camillo Ruini.
Chi ha paura, sempre e comunque, del responsabilizzante confronto (democratico)
pubblico tra tesi e visioni del mondo?

La proposizione successiva non è più rassicurante: vi si
afferma che un siffatto sostenere una “unica verità interpretativa” è lontanissimo
“dallo spirito e dai valori di una democrazia costituzionale”. Transitivamente,
è Magdi Allam ad essere lontanissimo ecc.; la sua battaglia è dunque
intimamente e pericolosamente antidemocratica. Su questo l’intervento di
Pierluigi Battista sul Corriere del
19 u.s. è stato perfetto. Si chiede Battista: cosa vuole la lettera? Intende
“rinchiudere il bersaglio [Magdi Allam] di tanta ardente indignazione in un
recinto infetto, fare terra bruciata attorno a lui, insomma procurare un
effetto intimidatorio (…)?”. In effetti come può venire in mente a dei democratici
di condannare un loro critico come
antidemocratico? Siamo di fronte ad un tipico tic autoritario da intelligencija.

Certamente la polemica di Magdi Allam è aspra, e ha forse
ecceduto nel legare immediatamente a persone determinate le sue formule. Ma non
è la prima volta che Allam afferma, né è isolato nell’affermare (proprio le
edizioni dell’Università Cattolica hanno tradotto l’intelligentissimo e duro
saggio di Roger Scruton, L’Occidente e
gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica
, 2004), che “ciò
che maggiormente (…) preoccupa e spaventa (…) è la resa morale, l’obnubilamento intellettuale, la collusione ideologica
e la fattiva collaborazione dell’Occidente con gli estremismi islamici”.

L’immediato riferimento
a Paolo Branca, sia pure dato come occasionale esempio, ha costretto
quest’ultimo a rispondere. Ma nei termini della lettera, cioè di una ritorsione
squalificante e non argomentata? Se davvero Branca ha detto che le parole dell’imam
Moussa (di Roma) sui “martiri dell’Islam” possono strappare il nostro consenso,
e comunque sarebbero natura più religiosa che politica” (!), non crede di dover
chiarire degli enunciati all’apparenza così imprudenti, anche in sede scientifica?

È vero, Branca si è mosso più in difesa di Massimo Campanini
che di se stesso. E Campanini  – che un Magdi
Allam esasperato ha preso ad esempio di un’università ove “pullulano ecc.” – ha
avuto, su Reset, agio di spiegarsi.
Osservo, con rammarico, che l’amico Campanini conferma la pertinenza di
un’accusa di antiamericanismo e di ostilità ad Israele. Lo fa con candore,
poichè pensa (e scrive) che la questione delle responsabilità del terrorismo
nel mondo e in Palestina sia “semplice da risolvere”: basterà imputarle in
parte oggi a Bush, in parte ieri Ben Gurion (si confronterà quanto aveva detto
nell’ottobre 2006, dopo il Libano, al “Manifesto”). Le informate note sui
Fratelli musulmani che seguono, e occupano oltre la metà della sua risposta su Reset, non escludono ciò che fa
infiammare Allam: i leader dei Fratelli Musulmani, descritti da Campanini così
operosi sulla via di una democrazia islamica, sono responsabili o no, magari in
termini da meglio circostanziare che nell’accusa di Magdi Allam, di “apologia
di terrorismo, di diffusione di ideologie dell’odio, della violenza e della
morte”? Se no, sarebbe stato bene vederlo affermato e provato. Ne Branca né
Campanini hanno ritenuto di dover chiarire o smentire. Non pare un
atteggiamento adeguato e non risulta certamente vantaggioso per loro; né dieci
né duecento firme di solidarietà valgono un argomento.

Si teme, prendendo francamente le parti di Israele e
accettando come verosimili le accuse di filoterrorismo alla nebulosa delle
moschee italiane, di perdere un contatto prezioso (politicamente e
scientificamente) con l’Islam italiano? Di non poter mediare tra culture o
istanze? Chi conosce le mie posizioni (nel libro Apparizioni quotidiane del 2005 e in www.chiesa.espressonline.it) sa quanto mi attenda da rigorose pratiche
negoziali con l’Islam, aperte al riconoscimento. Le realtà comunitarie ormai
naturalizzate hanno diritto a conservare lingua, diritto e cultura propria; le
donne ad indossare il velo e l’islam africano a conservare, sia pure nei limiti di una simbolizzazione
incruenta, i riti dell’iniziazione femminile. Si tratterà, appunto, di definire
giuridicamente e perimetrare la compenetrazione tra quegli istituti e gli
ordinamenti democratici – e l’identità occidentale cristiana. Diffido anch’io,
come gli islamici diffidano, del mito del meticciato. In questa razionale
prospettiva pattizia, devo riconoscere, trovo scarsi alleati; conoscitori e
difensori democratici dell’Islam hanno, in genere, paura delle reazioni del
femminismo e coltivano anch’essi (anche se studiosi) un robusto conformismo
antitradizionalista per non dire antireligioso, assieme alla attesa
consolatoria, comunque inappropriata al presente, di un islam riformato e moderato, come interlocutore.
Inappropriata%2C poiché il soggetto con cui si deve negoziare è quello che è, per
definizione, e non quello che vorremmo fosse (e col quale non sarebbe più
necessario negoziare).

Ma, proprio cercando un equilibrio secondo realtà, dobbiamo riconoscere che
non saremmo riusciti ad avere oggi, in noi stessi, un contrappeso al rischio di
opacità diagnostica, e involontaria collusione col nemico che pure esiste, se
non si fosse alzato il drammatico allarme di Oriana Fallaci, e non ci
aiutassero la battente pubblicistica di Magdi Allam, le campagne del Foglio, il coraggio di Fiamma Nirenstein
e di altri. Dobbiamo essere grati a Magdi Allam che ci ha imposto avvertenza e
allarme per il disegno, deliberato e
sistematico, che guida anche le impalpabili, mascherate, pressioni culturali
esercitate dal mondo musulmano intraeuropeo. Magdi ha ragione nella
drammatizzazione delle sue denunce. Il riconoscimento dell’Islam civiltà, già
complesso, non ha proprio niente a che fare con una lettura giustificazionista
nei confronti di tendenze (e organizzazioni e enunciati ideologici) di lotta.
La nostra cedevolezza è un pessimo sintomo, anche perché comporta una totale
cecità sulla intangibilità di Israele e sul suo significato per l’Occidente.

Certo, bisogna imporre
al dibattito e all’allarme una essenziale distinzione: altro è il confronto di potenza, pubblico-politico (nazionale e
internazionale) altro quello civile-culturale. Un paese (in accezione politica)
musulmano può essere hostis; è il
caso della guerra irachena, cui sono stato e resto favorevole. Hostes, nemici pubblici, sono le forme
militanti e armate che chiamiamo jihadiste. Ma esse non sono tradizione e
costume islamici, sono dei modernismi neotradizionali. Se le combattiamo senza
debolezze, l’islam come tale non si trasforma per noi in una acies inimica. Le polemiche, ora divergenti ora convergenti, dei
democratici e del “laici” di destra e di sinistra contro religione e
consuetudini islamiche sono atti di inimicizia, inutili e tendenzialmente
interminabili. Altro è il terreno
simbolico cruciale.

Secondo Magdi Allam, per Campanini il riconoscimento dello
Stato di Israele non potrebbe mai essere richiesto all’interlocutore musulmano
in una “Carta dei valori” (del genere di quella elaborata da Carlo Cardia e
assunta ad atto di governo da Giuliano Amato) intesa come base negoziale nelle
trattative tra stato italiano e rappresentanze musulmane. Credo si debba
affermare il contrario: proprio nel difficile scambio tra il riconoscimento
statale, di rilevanza pubblicistica, e gli obblighi contratti dalle comunità
musulmane, debbono essere menzionate e vietate la propaganda antiebraica e ogni
socializzazione o idealità terroristica. Il “martire” che uccide è un modello
che il paradigma cristiano non ammette e su cui esercita non una generica
critica umanitaria ma una critica teologica, di merito – quella che l’islam può
intendere.

Vi è una verità profonda nel titolo di un libro recente (di
Fiamma Nirenstein): Israele siamo noi.
Il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele è uno dei vincoli
primari da porre alla, per il resto libera, formazione delle popolazioni musulmane
in Occidente. In effetti coincide con la richiesta di dichiarare che esse (nei
loro rappresentanti e dottrinari) riconoscono il nostro futuro diritto ad esistere, e il loro stesso, come Occidente.