Magistrati e politica, basta con il sistema delle “porte girevoli”
17 Dicembre 2011
Cari amici,
ho accolto con particolare piacere l’invito a partecipare alla vostra iniziativa. Il tema dell’equilibrio fra il diritto di elettorato passivo e l’imparzialità della funzione giudiziaria ha infatti segnato in profondità il dibattito pubblico negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi, anche a causa di alcuni episodi eclatanti sui quali mi soffermerò più avanti. Il sottile confine fra i diritti del cittadino-magistrato e i doveri del magistrato-cittadino, tratteggiato nei principi della Costituzione, nella giurisprudenza della Corte e nelle norme della deontologia, e’ tema da maneggiare con cura, stante l’alto rilievo costituzionale di entrambi i beni fra la cui tutela e’ necessario operare un bilanciamento. Ciò nondimeno, gli eventi e l’evidente insufficienza degli strumenti di auto-disciplina hanno dimostrato come un intervento del legislatore sul tema delle ineleggibilità e delle incompatibilità dei magistrati nell’accesso alle cariche pubbliche sia necessario e indifferibile. E poiché in questa fase di gravissima crisi economico-finanziaria la politica deve riconquistare i propri spazi per evitare che una sospensione temporanea della democrazia dettata da ragioni del tutto eccezionali diventi qualcosa di più di una parentesi, questa materia che ha visto entrambi gli schieramenti politici attivi sul fronte dell’iniziativa legislativa potrebbe essere uno dei terreni sui quali riattivare una fisiologica dialettica parlamentare.
La legge infatti è del tutto carente nel dettare una disciplina che regoli il fenomeno delle “porte girevoli” tra la magistratura e la politica. E anche di fronte a situazioni di inopportunità così chiara da aver stimolato persino l’intervento delle massime istituzioni dello Stato, è apparso chiaro come confidare nella volontà di auto-riforma dell’ordine giudiziario non sia possibile o quantomeno non sia sufficiente, perché anche le migliori intenzioni di cui l’iniziativa di oggi e’ prova evidente, al dunque finiscono per essere soffocate dal prevalere di logiche di auto-tutela corporativa.
Esco dall’astrattezza, e con qualche caso concreto potremo capirci meglio. Premetto subito che mi soffermerò in particolare sul problema dell’assunzione di cariche pubbliche in seno ad amministrazioni locali e regionali da parte di magistrati che fino a quel momento avevano esercitato nello stesso territorio funzioni giudiziarie. Non per cedere a mia volta a tentazioni corporative e negare che il fenomeno riguardi anche il Parlamento nazionale – basterebbe vedere quale straordinaria miniera di politici, tutti di una stessa parte, sia stata in passato la Procura di Bari – ma perché in virtù della differente tipologia di attività e in assenza di casi di magistrati-parlamentari che alla fine del mandato abbiano chiesto il reintegro nelle funzioni vista la necessaria brevità delle mie considerazioni preferirei dedicarle al tema delle cariche amministrative, che a me pare presentare profili di particolare rilievo.
Dicevo dunque della responsabilità del legislatore e degli ostacoli corporativi a un’autoriforma di fatto, che comunque non sollevano noi parlamentari dal dovere di fare la nostra parte. La normativa attuale, straordinariamente carente sotto questo profilo, consente ai magistrati di assumere cariche nel proprio distretto senza soluzione di continuità e previa una semplice collocazione in aspettativa. Addirittura, se il magistrato vuole fare l’amministratore pubblico in un territorio al di fuori del suo distretto giudiziario, potrebbe farlo senza neanche chiedere l’aspettativa e continuando a fare il magistrato! Ciò ha reso possibile situazioni al limite della decenza. Ha consentito che pubblici ministeri si spogliassero il lunedì della toga per indossare il martedì la divisa di assessore nella stessa città o nella stessa regione. E ha consentito addirittura che a farlo, come ben sapete qui in Puglia, fossero pubblici ministeri che fino al giorno prima avevano indagato sui propri futuri avversari politici, o addirittura sulla stessa amministrazione regionale guidata dal medesimo presidente che li ha poi chiamati in giunta.
In Puglia è potuto accadere che Lorenzo Nicastro diventasse assessore della giunta Vendola dopo aver indagato contro il suo avversario politico Raffaele Fitto e addirittura contro la stessa precedente giunta Vendola. A Napoli e’ potuto accadere che diventasse assessore della giunta De Magistris il pm Narducci che fino al giorno prima aveva indagato contro Nicola Cosentino. In Sicilia Raffaele Lombardo si è circondato di magistrati nel governo regionale del post-ribaltone, e se l’eccezionale benevolenza esercitata da certa magistratura nei confronti del governatore Lombardo è senz’altro indipendente dalle sue scelte nella composizione della giunta e più in generale da ragioni politiche, più difficile e’ impedire che nei cittadini sorgano interrogativi di altra natura.
Il tema è di straordinaria rilevanza istituzionale, e a voi promotori di questa iniziativa va dato atto di averne colto la portata e non da oggi. Il rilievo deriva da ragioni di opportunità: un magistrato, e in particolar modo un magistrato inquirente, è portatore di conoscenze tali rispetto al territorio in cui opera che neppure la più assoluta presunzione di buona fede può far pensare che esse non determinino inevitabili e indebite commistioni tra il ruolo del lunedì e il ruolo del martedì. Ma il problema non è solo l’opportunità. Il problema è che la candidatura o l’assunzione di una carica amministrativa da parte di un magistrato, il passaggio dalla toga alla politica senza soluzione di continuità, indipendentemente dalla correttezza del magistrato stesso getta una luce di parzialità sulla sua attività pregressa tale da recare oggettivo e grave pregiudizio al bene costituzionalmente protetto dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Per non parlare dell’eventualità in cui, cessata la carica, il magistrato-politico intendesse tornare a fare il magistrato.
Insomma: con la stessa solerzia con la quale il valore dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura viene ricordato a noi politici, con l’accusa sottintesa di non averlo abbastanza a cuore, ci piacerebbe che analoga sollecitudine venisse mostrata in ogni sede rispetto a comportamenti di magistrati che possono metterlo a repentaglio.
In tal senso, ferma restando – lo ribadisco – la responsabilità di noi legislatori di cui parlerò più avanti, credo che ad esempio sul caso Narducci l’Anm e il Csm abbiano perduto un’occasione storica per un primo atto di coraggiosa autoriforma. L’Anm, dopo aver censurato il comportamento del dottor Narducci in quanto contrario alle regole deontologiche dell’associazione, l’ha “assolto” per mezzo dei probiviri con una motivazione degna del migliore sofismo. E il Csm ha ritenuto, con una votazione a maggioranza, di interpretare in senso burocratico la propria facoltà deliberatoria sulla concessione delle aspettative. Esistono nel nostro ordinamento, fin dalla Costituzione, principi generali che avrebbero consentito al Csm di segnare una piccola grande svolta nel rapporto tra giustizia e politica orientando diversamente la sua interpretazione pur di fronte a un vuoto normativo: i giudici lo fanno quotidianamente con le loro “sentenze creative”. Ma poiché in effetti una legge manca e di essa c’è evidente bisogno, e poiché non è serio dire che è sempre e solo colpa di qualcun altro e noi vogliamo essere seri, la politica ha colto il senso positivo del serrato dibattito che ha impegnato il Csm sul caso Narducci e prima ancora sul caso Nicastro, e soprattutto ha aderito all’invito del Consiglio e dello stesso Capo dello Stato a promuovere iniziative legislative per colmare il vuoto.
Sono state presentati in Senato diversi disegni di legge da parte di entrambi gli schieramenti (parlo del Senato perché è il ramo del Parlamento di cui conosco l’attività). Io stesso ho presentato una proposta di modifica del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, con la condivisione di molti componenti del gruppo. Si tratta di una proposta sobria, credo equilibrata, che nel regolare i casi di incompatibilità e di ineleggibilità dei magistrati, nonché la loro ricollocazione al termine del mandato o all’esito di una candidatura senza successo, limita il diritto di elettorato passivo e il diritto di accesso alle cariche pubbliche il minimo indispensabile a garantire che non vengano pregiudicate l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, e il diritto dei cittadini a una giustizia che sia imparziale e si preoccupi anche di apparire tale.
Non si tratta di voler issare bandiere. Si tratta, più semplicemente, di contemperare l’esercizio dei diritti civili garantito ad ogni cittadino con la particolarità della figura del magistrato, ben delineata dalla Corte Costituzionale nella sentenza numero 224 del 2009 che così recita: “Deve riconoscersi, e non sono possibili dubbi in proposito, che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino (…). Ma deve, del pari, ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale (…). Per la natura della loro funzione, la Costituzione riserva ai magistrati una disciplina del tutto particolare (…): questa disciplina, da un lato, assicura una posizione peculiare, dall’altro, correlativamente, comporta l’imposizione di speciali doveri. I magistrati, per dettato costituzionale (…), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro imparzialità”.
Non credo ci sia bisogno di aggiungere ulteriori commenti. Il tema è attualmente incardinato in Commissione Giustizia, e credo che iniziative meritorie come quella odierna oltre ad essere occasioni di approfondimento siano anche utile stimolo affinché, travolti dalle emergenze quotidiane di cui è gravido il nostro tempo, i legislatori non lascino irrisolti nodi così cruciali per la qualità della nostra democrazia.