Magnifica presenza, un film di Özpetek di cui non si sentiva il bisogno
18 Marzo 2012
Cosa dire del nuovo film di Ferzan Özpetek “Magnifica presenza”? A leggere quanto si è scritto c’è da rimanere intimoriti. Sono stati scomodati cineasti di ieri e di oggi, del calibro di Fellini, Buñuel, Almodóvar. E il teatro metafisico di Pirandello (“Sei personaggi in cerca di autore”), quello meno metafisico di Eduardo (“Questi fantasmi”), e la drammaticità esistenziale dell’americano Tennessee Williams (“Un tram chiamato desiderio”). Noi preferiamo rimanere con i piedi in terra, e ci sforziamo di fissare più modestamente quello che di concreto si vede e non quello a cui di grandioso potrebbe eventualmente rimandare.
“Magnifica presenza” è un film davvero poco italiano. Elegante, curato, intellettualmente evoluto, formalmente ineccepibile. La storia raccontata è per nulla facile da maneggiare, poiché come recita il film protagonisti sono appunto i fantasmi. Il giovane catanese Pietro Ponte (Elio Gremano) è “salito” a Roma per fare l’attore. Intanto si accontenta di infornare cornetti la notte. Trova ad un prezzo abbordabile un vecchio appartamento in una tranquilla e fin troppo borghese zona di Roma, la parte vecchia di Monteverde. Si dedica anima e corpo a restaurare l’appartamento. Ha bisogno di una dimora che gli assomigli, nella quale fare finalmente i conti con se stesso e la propria identità sessuale.
In ogni film di Ferzan Özpetek che si rispetti, l’omosessualità maschile è l’asse portante, sulla quale tutto ruota. Quindi Pietro è l’ennesimo gay del repertorio di celluloide, tanto per non distaccarsi dalla dominante tematica del regista-esteta, cantore dell’omosessualità. Ma il ragazzo è un gay ancora confuso, solitario, educato, lavoratore, rispettoso, che ha vissuto una sola notte d’amore con un uomo, e ci ha capito davvero poco. Ovviamente nel corso del film, come d’abitudine, altri gay appaiono. Appaiono però di sfuggita e rappresentano più che altro figure metafisiche.
In una specie di sogno a metà strada tra l’onirismo del Fellini di “Otto e ½” e gli incubi sanguinari in maschera del Kubrick di “Eyes Wide Shut”, Özpetek disegna il ritratto di un grande sapiente, o veggente, signore del passato e del futuro, incarnato da Maurizio Coruzzi, al quale è stata tolta la maschera di Platinette.
In “Magnifica presenza” Özpetek intende soffermarsi sul labile confine esistente tra realtà e fantasia, nella vita come sul palcoscenico artistico. Pietro si trova a vivere proprio questa dimensione bipolare, giacché l’appartamento che per la prima volta nella vita gli fa assaporare libertà e felicità, è abitato da una compagnia di fantasmi, attori rimasti bloccati nel tempo del 1943. In quell’anno una compagnia di teatranti è misteriosamente scomparsa. Fantasmi di un tempo antico, pettinati, vestiti e truccati come una commedia teatrale di Vittorio De Sica (“Una dozzina di rose scarlatte”) o una sofisticata commedia americana con Katharine Hepburn. E i fantasmi chiedono a Pietro di aiutarli, e liberarli finalmente dalla prigione del tempo privo di tempo nel quale sono rinchiusi. Quindi “Magnifica presenza” è anche un viaggio nella memoria storica (il fascismo e l’antifascismo), nel mistero della recitazione elevata a gran teatro della vita, dove vanno in scena il bello o l’orribile delle passioni umane.
Altre (troppe!) strade si intrecciano nel film. Non è facile seguirle tutte, poiché in “Magnifica presenza” il tempo va e viene. Ci sono momenti davvero divertenti di comicità; momenti di grande emozione; momenti di odiosa cattiveria. Un inquietante ruolo (quanto splendido nella recitazione) è affidato ad Anna Proclemer, il cui volto ancora è capace di attrarre e spaventare. Il commento musicale, poi, è una specialità di Özpetek, quanto mai sofisticato. In conclusione, a chi piace nei film non capire niente del significato, con un finale ambiguo, troverà in “Magnifica presenza” l’opera perfetta. A nostro avviso è l’ennesimo giro a vuoto di un percorso intellettualistico e omosessualista che accompagna il cinema italiano verso una processo di ulteriore disumanizzazione, del quale non si avverte nessun bisogno.