
Malattia di Kawasaki e Covid-19: sono davvero correlati? Intervista al Prof. Cimaz

19 Maggio 2020
“Non c’è per ora alcuna prova di una correlazione tra la malattia di Kawasaki che conosciamo e Covid-19. La sindrome o malattia di Kawasaki esisteva già da molto prima del SARS-Cov-2”. A dichiararlo è il Professor Rolando Cimaz, reumatologo pediatra e professore all’Università di Milano. Nei giorni scorsi si è parlato di un aumento di casi della malattia di Kawasaki nei bambini, in seguito all’infezione di Coronavirus.
La malattia di Kawasaki (o sindrome linfonodale muco-cutanea), dal nome del pediatra giapponese Tomisaku Kawasaki, è una vasculite sistemica che colpisce i bambini soprattutto tra i 2 e i 5 anni. Si manifesta con febbre elevata, congiuntivite, edema di mani e piedi, ingrossamento dei linfonodi del collo, rash cutaneo simile a quello del morbillo, e arrossamento delle labbra.
Secondo il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) sono circa 230 i casi di bambini che finora hanno presentato una nuova sindrome multisistemica infiammatoria pediatrica (PIMS), alcuni dei quali sono stati anche ricoverati in terapia intensiva. I segni e i sintomi hanno in parte a che fare con la malattia di Kawasaki, in parte con la sindrome da shock tossico e sono caratterizzati da febbre, dolore addominale e coinvolgimento cardiaco. Dal sito dell’ECDC si legge che è stata ipotizzata una possibile associazione temporale con infezione da SARS-COV-2 perché alcuni dei bambini testati erano positivi o al test del tampone (PCR) o alla sierologia.
Uno studio dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, pubblicato su The Lancet, ha analizzato 10 casi di bambini con sintomi simili alla malattia di Kawasaki, tra il 1 marzo e il 20 aprile 2020. Nei cinque anni precedenti la malattia era stata diagnosticata a soli 19 bambini: ci troviamo di fronte ad un aumento della sindrome di Kawasaki?
“Non si può parlare propriamente di aumento. Aumento vuol dire che una cosa che ha una frequenza subisce una frequenza superiore. Per una malattia che prima non c’era, perché il Covid non esisteva prima del 2019, parlare di aumento sarebbe un controsenso. Quello che si sta verificando adesso non è la malattia Kawasaki classica che conosciamo. I casi di Bergamo, legati all’infezione, sono di bambini con un’età media di 7,5 anni, rispetto al gruppo diagnosticato nello studio retrospettivo effettuato a Bergamo (dal 1 gennaio 2015 al 20 aprile 2020) dove la media era di 3 anni”.
Di cosa si tratta?
“È una malattia che presenza caratteristiche comuni alla sindrome di Kawasaki, ma con molte differenze. Alcuni bambini che hanno avuto un contatto con l’infezione da Sars-Cov-2 sviluppano una forma grave simile allo shock tossico con coinvolgimento del miocardio, diarrea, sofferenza generale che li può portare in rianimazione. Si tratta probabilmente di una risposta dell’organismo, ancora da studiare, all’infezione. Dico probabilmente, perché ancora nessuno lo ha dimostrato: in questo caso è plausibile che ci sia. L’organismo infatti risponde con una risposta immunitaria che in alcuni soggetti, per motivi che ancora non si conoscono, può scatenare una condizione molto grave, ma per fortuna curabile. I casi di Bergamo sono guariti tutti e 10, in America si sono registrati dei morti, ma si tratta di una forma molto rara”.
Rara quanto?
“Non possiamo saperlo con precisione. Alcuni suggeriscono che viene colpito un bambino su 1000. In Italia se ci sono stati 200.000 Covid positivi e la popolazione pediatrica è il 20% circa, quindi 40.000, vuol dire che 40 bambini possono manifestare sintomi legati a questa forma grave. In realtà non conosciamo bene il numero totale dei bambini che hanno contratto l’infezione, quindi sui numeri non si possono fare previsioni precise e il numero potrebbe essere più alto. Un altro problema è che la sindrome di Kawasaki non è diagnosticabile con un esame. Ci sono dei segni e sintomi che possono essere comuni a tante altre, come la febbre, che c’è anche nel Covid. Per cui si rischia di creare confusione e dare informazioni sbagliate. Sappiamo che i bambini vengono poco colpiti dal COVID-19 (cioè la malattia), ma non sappiamo quanto vegano infetti da SARS-Cov-2 (il virus). Tuttavia anche se fossero infetti in gran numero, la quantità che si ammala con dei segni e sintomi gravi è minuscola rispetto agli adulti. È una mortalità quasi pari a 0. Si può dire che Sars-cov-2 ha una morbilità molto modesta, non sappiamo se si infettano di più o di meno, perché nessuno di loro va fare il prelievo, ma è plausibile che l’infezione possa esserci anche in età pediatrica. La minoranza sviluppa dei sintomi, di questa minoranza, un’ulteriore minoranza sviluppa dei sintomi gravi”.
Come si sviluppa questa forma molto grave?
“Ancora non lo sappiamo. Ci sono degli studi di ricerca in corso. Bisogna studiare in modo approfondito le cellule, la risposta immunitaria, il background genetico di questi soggetti, non facili da reclutare se sono sparsi nel mondo. Purtroppo la scienza non ha delle risposte immediate, rapide, dall’oggi al domani. Bisogna fare degli esperimenti. Trattandosi di una cosa mai verificata bisogna raccogliere i campioni biologici e i numeri poi non sono, per fortuna, altissimi. Tenga conto che se in tutto il mondo, probabilmente, di quelli che abbiamo sentito tra quelli totali sono poche centinaia: 100 in America, 50 in Inghilterra, 40 in Italia, 30 in Francia. Sono numeri molto bassi e distribuiti in più punti. Non è facile. Ci si sta muovendo: abbiamo un consorzio europeo molto attivo. Ma servono settimane o mesi per aver risposte sicure”.
Cosa si sa finora?
“In una piccolissima percentuale di soggetti che non si sa come mai sono più propensi, il virus può scatenare una risposta immunitaria che si manifesta qualche settimana dopo l’infezione, il cui esito è una sindrome infiammatoria anche molto grave. Ed è quello che hanno scritto sia gli inglesi (8 casi), sia la casistica dei 10 bambini di Bergamo e sia tutti gli altri in cui siamo in contatto tutti i giorni (Francia, Spagna, Usa dell’est). È una condizione che è abbastanza simile in tutti questi Paesi”.
Lei prima ha detto che non esiste un esame diagnostico per la sindrome di Kawasaki, come si può quindi escludere la connessione con il SARS-Cov-2?
“Conosciamo la malattia Kawasaki da ormai 50 anni. Ci sono delle caratteristiche che sono molto tipiche: età giovane, bambini, irritabili, aneurismi coronarici nei casi non trattati e mancata risposta alla terapia con immunoglobuline nel 15% dei casi. In Stati come il Giappone, Taiwan, Corea del Sud, dove solitamente si registrano molti più casi di malattia di Kawasaki rispetto all’Italia, non è stato descritto un aumento di incidenza di malattia in questi mesi di pandemia. Detto ciò, le forme gravi di cui si parlava e che sono simili alla Kawasaki ma presentano importanti differenze sembrano invece avere una connessione con il virus, ancora però da studiare”.
È ancora presto per catalogare e nominare questa nuova forma…
“Ogni volta che c’è un fenomeno nuovo e che non c’è mai stato prima si possono dare vari nomi. Il nome adesso serve a poco: c’è chi la chiama malattia pediatrica infiammatoria multisistemica, chi la chiama shock infiammatorio, chi simil Kawasaki, creando però confusione. Per nominare una malattia bisogna esser sicuri di parlare tutti della stessa cosa. E ora non ci siamo arrivati. La nomenclatura delle malattie, poi, prevede delle precise regole internazionali”.
In cosa consiste la cura terapeutica?
“Ad oggi non ce n’è una migliore. Perché bisogna confrontare i vari casi. Quello che è stato usato finora sono, a seconda dei veri centri, o cortisone o immunoglobuline o le due cose insieme, o antagonisti delle citochine che si usano anche nei pazienti Covid”.
A settembre la riapertura delle scuole potrà costituire un rischio?
“Rischio calcolato: la logica dice che la gente più si muove maggiori sono le probabilità di contagio. Le scuole sicuramente sono un luogo dove alcune misure di contenimento possono essere effettuate. I bambini, tuttavia, non sono il problema principale. Sviluppano meno le complicanze, il problema semmai riguarda gli insegnanti o i nonni. Il fatto che questi 10 casi registrati a Bergamo si siano verificati in un luogo dove c’è maggiore incidenza del virus, fa pensare, anche se non è ancora stato dimostrato, che vi sia una correlazione all’infezione da Sars-Cov-2. Ma, come ho detto prima, parliamo di pochi casi. Questo ovviamente non è che deve togliere la possibilità alla popolazione di fare quello che verrà indicato idoneo in base alle regolamentazioni di legge e alle varie considerazioni epidemiologiche generali. Non è che siccome c’è stata una complicanza, che probabilmente ma non sicuramente è stata legata al Coronavirus, uno poi non deve condurre la sua vita normale, se le condizioni lo permettono. È come dire: chiudiamo le strade perché ci sono gli incidenti e allora nessuno va più in giro”.