Mamma mia! La sinistra è nel magma fino al collo!
24 Novembre 2017
Mamma mia! La sinistra è nel magma fino al collo! L’altro giorno ho letto sul Corriere della Sera (più precisamente il 16 novembre), a firma di Monica Guerzoni, che “Fassino non ha ancora sentito Speranza” (nei giorni successivi la farsa è stata poi incrementata dall’ex sindaco di Torino che prima d’incontrare Roberto Speranza ha detto “La speranza non è mai morta” così riferisce ancora la Guerzoni sul Corriere della Sera del 22 novembre). E così mi chiedo: che cosa è successo di così grave alla sinistra italiana (nonché ai nostri giornali) per ridursi così? Da una parte si sta perdendo il controllo del linguaggio, che pure era una risorsa importante di una tradizione politica che ha lunga storia e grandi esperienze. Sentite come parla Laura Boldrini registrata dalla Repubblica del 14 novembre: “Non è certo la prima volta che i presidenti delle Camere fanno incursioni nel politico, pur in un quadro di riconosciuta terzietà”. Ma anche persone con una loro solida personalità e che, per esempio nella campagna sui referendum costituzionali, hanno argomentato con intelligenza come Anna Falcone, se ne escono con un “Noi non ci siamo neppure organizzati in movimento, abbiamo puntato a un discorso e ci siamo messi a disposizione. L’abbiamo fatto non per sedere a un tavolo” sempre Repubblica del 14 novembre. E il compagno di lotta della Falcone, un intellettuale di qualità, Tommaso Montanari si lamenta perché i bersanian-dalemiani vogliono “equilibri attentamente determinati”: come si costruisce un’intesa tra diverse posizioni e movimenti politici senza determinare un qualche equilibrio tra chi converge? Il problema è non farlo attentamente? E si può, come dice ancora Montanari sulla Repubblica del 20 novembre, uscirsene con un “Il Brancaccio non è una componente” che è una frase a metà tra quelle di quando quelli di Potere operaio annunciavano nel ’68 che l’aula 101 della Statale di Milano aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti e la battuta di Edoardo De Filippo che al funzionario della Rai che gli diceva: “Pronto qui è la televisione”, rispondeva: “Va bene, aspetti che le passo il frigorifero”.
Però al di là dei compagni di strada anche i professionisti stanno sbarellando. Pierluigi Bersani quando dice che “le chiacchiere stanno a zero” (così su Huffington Post Italia del 13 novembre) dovrebbe essere consapevole che in mancanza di atti politici concreti che saranno possibili solo dopo nuove elezioni, oggi tutto il suo lavoro è fatto di “chiacchiere”. Il povero Maurizio Martina straparla: “Le cose sin qui realizzate non sono la nostra meta” così registra la Repubblica del 15 novembre. Di nuovo mi prende il panico quando leggo: “Non è escluso che Prodi in queste ore abbia sentito Pier Luigi Bersani” come riferisce Alessandro Torcino sul Corriere della Sera del 19 novembre. Ma si può usare una retorica tipo incontro Vittorio Emanuele II – Garibaldi a Teano per una telefonata Romano-Pierluigi?
Naturalmente nuove vette di marasma si raggiungono quando interviene Giuliano Pisapia che “ha anche parlato di ‘un garante dell’accordo’, che verrà istituito ‘se si farà come molti auspicano una coalizione ampia e aperta’. Il nuovo centrosinistra e la possibilità di cambiare il Paese parte già dalla legge finanziaria, già lì bisogna dare un segnale forte di un cambio di rotta”. A parte l’idea cervellotica del “garante dell’accordo” (una sorta di notaio con poteri di multa?) la proposta di scombinare una manovra finanziaria che è stata rimandata a maggio dalla Commissione europea, secondo le regole ormai da Cacania di questa nostra Unione, per non favorire i grillini, può essere veramente presa in considerazione alla vigilia di Natale? Peraltro è proprio l’impostazione per cosi dire pisapiana che è irrazionale così quando dice: “per vincere le elezioni bisogna dare un segnale immediato di discontinuità”. Insomma votateci perché per cinque anni abbiamo fatto solo cavolate. Parrebbe (vedi anche la citazione di Martina) che questa idea si stia insinuando tra le truppe in preda al panico del Pd: “Per blindare l’intesa, il Pd promette un documento di svolta sul Jobs act” così Tommaso Ciriaco raccoglie le sue indiscrezioni sulla Repubblica del 20 novembre. Sandra Zampa sul Corriere del 20 novembre lancia Prodi come arma finale: “Fa il vinavil” terrà insieme tutti. Veltroni su Huffington Post Italia del 20 novembre fa quello che ha sempre fatto, sparge retorica: “La divisione è un demone della sinistra”. D’altra parte per l’autore di “Quando, quando, quando”, lo slogan definitivo non può che essere “non ci lasceremo mai”.
E’ difficile non dare ascolto in questa situazione a una persona di buon senso imbarcatasi sulla zattera bersanian-dalemiana come Peppino Caldarola che su Lettera 43 del 20 novembre scrive: “Tutto dimenticato: rottamazione, buona scuola, fallimento della riforma costituzionale, gufi, Job act, caso Etruria. La formula mobilitante del vecchio Ulivo che rinasce curerà le vecchie ferite, farà tornare al voto soprattutto quei 600 mila emiliano-romagnoli che per primi abbandonarono il Pd nelle Regionali 2014 e tutti quelli che si sono chiusi in un silenzio torvo e pieno di odio personale verso Renzi che era del tutto incomprensibile per Andrea Romano e Maria Teresa Meli”. Si possono non condividere gli argomenti di quelli sulla “zattera” però è difficile con questi argomenti non fare i conti. Cioè risolverli con frescacciate come quelle che Matteo Renzi dice alla Stampa del 20 novembre: “L’alleanza larga prende sempre più corpo, si va da Lorenzin a Pisapia” o quelle riportate dal Corriere della Sera del 22 novembre: “La mediazione sì, l’abiura no”. E: “il Macron è il leader più importante in Europa in questo momento, più della Merkel” così dice Renzi in un lancio Agi del 22 novembre, una frase che pur essendo graziosamente sciacallesca non nasconde la sostanza dei fatti che cioè il politico di Rignano è una sorta di François Hollande, non comparabile al dinamico Emmanuel. Un uomo diventato abbastanza saggio (anzi “molto saggio”, rispetto al panorama esistente) dice sullo stato della sinistra che: “Bisogna vedere se è un magma iniziale o finale” così Luciano Violante alla Repubblica del 15 novembre. Finale o iniziale, comunque è magma.
Netanyahu beccato a chiedere un visto per gli Stati Uniti per un suo amico, in cambio di sigari e champagne. “Among the alleged donors is billionaire film producer Arnon Milchan, who purportedly gave cigars and champagne to the premier over a seven to eight-year period. In return, Mr Netanyahu is claimed to have lobbied then US Secretary of State John Kerry over Mr Milchan’s bid to acquire a new US visa”. Chris Baynes sull’Indipendent del 19 novembre racconta come Netanyahu sia stato interrogato dalla polizia per aver ricevuto sigari e champagne dal milardario Arnon Milchan e in cambio l’avrebbe raccomandato a John Kerry per avere un visto per gli Stati Uniti. La prima speranza è che questa vicenda si sgonfi, la seconda che almeno il premier israeliano sia incolpato di qualcosa di serio tipo avere ricevuto delle tangenti per l’acquisto di sottomarini dalla Germania. Che anche in Israele si perseguiti un politico per reati tipo “tentata vacanza” come nelle note vicende che riguardano Roberto Formigoni, mi sconcerta parecchio.
Quella fiacca lottatrice anticorruzione della Severino. “Le elezioni in Sicilia sono state una competizione drogata dagli impresentabili. Il commento della presidente della commissione antimafia Rosy Bindi sull’arresto di Cateno De Luca è tutt’altro che diplomatico” così riferisce sul Fatto del 9 novembre Tommaso Rodano. Al fondo si legge come la Bindi giudichi la Severino una mezza cartuccia capace sì di rendere ineleggibili alcuni parlamentari o consiglieri comunali e regionali, ma non di mettere fuori legge quegli elettori che votano così male.
Se l’Economist veltroneggia. “From South Africa to Spain, politics is getting uglier. Part of the reason is that, by spreading untruth and outrage, corroding voters’ judgement and aggravating partisanship, social media erode the horse-trading that Crock fosters liberty”. Un editoriale dell’Economist del 4 novembre spiega che diffondendo falsità e oltraggi, logorando la capacità di giudizio e irrigidendo la faziosità politica, i social media erodono quelle condizioni per la mediazione politica che favoriscono la libertà. Naturalmente vi sono elementi di assoluta ragionevolezza in questa riflessione nonché nelle proposte connesse (per esempio quelle di responsabilizzare la comunicazione via internet e affrontare i monopoli che si sono costruiti in questo campo) ma vi è anche una sorta di veltroneggiare che non ci saremmo mai aspettati nel settimanale che fu di Walter Bagehot: indicare, nel modo scelto dall’Economist, la Spagna e il Sud Africa come due esempi dei danni fatti alla politica dai social media, vuol dire dimenticare completamente le basi storiche recenti di queste due nazioni. Né Francisco Franco né l’apartheid erano fondati su Internet, ragionare sulle difficoltà della politica spagnola o sudafricana senza considerare il peso della storia, non solo è sbagliato ma è pure ridicolo. La discussione di certe degenerazioni prodotte dall’uso delle nuove tecniche di comunicazione e dai social media che le utilizzano, ha senso finché la cornice della riflessione è razionale e critica, dopo si entra nel terreno della più pura e fantasiosa propaganda. Per capire l’evoluzione della politica nell’epoca che viviamo è necessario concentrarsi innanzi tutto sull’elemento fondamentale che guida questa evoluzione e poi articolare l’analisi sugli altri fattori che co-determinano questo “elemento centrale”. Le contraddizioni principali che stiamo vivendo sono definite dai processi economici di globalizzazione, con aree sociali che vi partecipano a pieno e che considerano dunque come i vari enti sovranazionali coinvolti in questo fenomeno siano sufficienti a rassicurarli, e altri settori della società che si sentono penalizzati e vedono solo negli Stati nazionali un mezzo per governare quel che condiziona la loro vita. Certo poi sistemi di comunicazione che individualizzano la presa di coscienza dei problemi e la polarizzano esasperandola, possono aggiungere contraddizione a contraddizione. Ma se si scambia il sugo per la “ciccia” della questione come fa un po’ troppo furbescamente l’Economist, non si caverà un ragno dal buco.