(Manfredi) Borsellino vs Sgarbi. Un episodio gravissimo da non sottovalutare

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(Manfredi) Borsellino vs Sgarbi. Un episodio gravissimo da non sottovalutare

25 Marzo 2012

«e se non piangi, di che pianger suoli?»
Dante, Canto XXXIII dell’Inferno

Se quanto riporta Vittorio Sgarbi nell’articolo pubblicato il 22 scorso sul ‘Giornale’ – Il caso Lo scontro tra Sgarbi e gli eredi del giudice. Se Borsellino (figlio) mi manda la polizia contro – è vero, il ‘regime’ che i radicali denunciano da quarant’anni, a forza di venire evocato, è arrivato sul serio e non con la divisa delle Guardie Svizzere, recanti censure della CEI, ma con quella della Polizia di Stato «smilitarizzata» ! Sempre che i fatti siano come li riferisce Sgarbi, il fascismo non è una minaccia: sta diventando un modo di essere, uno stile di vita, almeno per certi esponenti delle forze dell’ordine e della magistratura.

Riassumere l’articolo, peraltro secco e preciso, forse non ha senso. Si perde meno tempo a trascriverlo per intero, come mi accingo a fare.

«Lunedì 19 marzo Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, oggi Dirigente del Commissariato della Polizia di Stato di Cefalù, ha inviato suoi uomini nella sede dell’emittente radiofonica «Radio Cammarata Cefalù» pretendendo copia della registrazione di una intervista tra i candidati sindaci andata in onda domenica mattina, nel corso della quale io ho ricordato le parole di stima che sua madre, Agnese Piraino Leto, vedova di Paolo Borsellino, espresse nei miei confronti durante la sua visita a Salemi. Non solo. Con modalità che costituiscono probabilmente un abuso, ha preteso che su una bacheca pubblica della radio collocata nel principale corso della città, così come sul sito internet della stessa, fosse pubblicata quella che lui definisce una «smentita», e che qui riporto integralmente: «Il dottor Manfredi Borsellino smentisce il professore Vittorio Sgarbi. Miei uomini mi riferiscono che il candidato sindaco Vittorio Sgarbi, intervenendo nella vostra emittente radiofonica, oltre a lanciare i soliti attacchi a magistratura e forze dell’ordine, avrebbe millantato un’amicizia con mia madre. Si tratta di un’affermazione molto grave, che ovviamente mia madre smentisce con forza. La conoscenza occasionale è cosa ben diversa dall’amicizia, che non potrebbe mai instaurarsi tra un soggetto con il vissuto di Sgarbi e la vedova di Paolo Borsellino. Firmato: Dott. Manfredi Borsellino – Dirigente Commissariato».
Sono letteralmente sorpreso dalla nota di Manfredi Borsellino. Una evidente forma di intimidazione più che nei miei confronti, nei confronti emittente. Un metodo poliziesco, anzi da Stato di Polizia, inaccettabile. Una «messa in scena» cercata, visto che la registrazione era disponibile sul sito della radio.
Per la Sicilia non c’è speranza. Io dico la verità. Sua madre, Agnese, è stata in visita a Salemi nel dicembre del 2008, ed è stata da me ricevuta, assieme ai suoi parenti e anche suoi familiari, nell’auditorium San Giovanni, di fronte ad almeno 80 persone, dopo che è stata la stessa signora a manifestare ad amici comuni la volontà di conoscermi personalmente. Una cosa è certa: Manfredi Borsellino non c’era. Quello del dicembre 2008 è stato un incontro cordiale, di reciproche attestazioni di stima, dopo il quale accompagnai Agnese Borsellino in una visita alla città. Riporto qui di seguito la trascrizione del suo intervento: «Sono commossa da questa accoglienza. Come siciliana sono felicissima della scelta di Sgarbi che da Nord ha scelto di fare il sindaco in una cittadina siciliana. Credo che non l’abbia fatto per curare la sua immagine perché non ne ha bisogno; vedo nel lavoro di Sgarbi un’azione missionaria. Sono convinta che, grazie anche lui, comincerà una nuova stagione. È stata scelta una persona che viene da lontano, per far sì che, non con le chiacchiere ma l’azione, e soprattutto il linguaggio eterno dell’arte, si possano trasmettere valori positivi. Auguriamoci ci siano tanti Vittorio Sgarbi che possano portare qualcosa di nuovo in altre realtà della Sicilia». Chiedo comunque di sapere a che titolo e per quali ragioni di servizio Manfredi Borsellino ha mandato i «suoi uomini» della Polizia di Stato a pretendere copia della registrazione e la pubblicazione della smentita. Prima di congedarmi gli ricorderò una ulteriore confidenza di sua madre, privata e vera, e non irriferibile:”Caro Sgarbi, vedo in te una straordinaria somiglianza di carattere e di temperamento con mio marito”».

 Mi auguro sinceramente, per il bene del nostro sventurato paese, che Sgarbi, nella sua cronaca, abbia omesso un particolare decisivo: che la richiesta del Commissario di PS ansioso di mettere le mani sulla registrazione era stata autorizzata da un Pubblico Ministero. Gli agenti, infatti, possono intervenire autonomamente solo in caso di imminenza di reato, quando manca il tempo di recarsi dal magistrato che, con atto ufficiale, consenta la violazione della privacy per gravi motivi di ordine pubblico o per prevenire un’azione delittuosa. Se dietro l’irruzione di Manfredi Borsellino, invece, non c’era nessun PM, sarebbe inevitabile dedurne che siamo in un clima da Le vite degli altri, alla mercé di uno Stato che non solo ci salassa fiscalmente ma ci toglie persino quella libertà di parola che nessun governo democristiano (o ‘clericofascista’ per riprendere la definizione dei padri nobili di Diliberto e di Flores d’Arcais) s’era mai sognato di limitare. Si tratterebbe, in questo malaugurato caso, di una ferita così grave inferta alla legalità da richiedere un’interpellanza parlamentare.

C’è, però, un aspetto della vicenda che non riguarda più lo ‘stato di diritto’ ma lo stato in cui versa la civiltà in Italia e che potrebbe costituire la prova provata dell’abbattimento delle barriere che separano la politica, la morale, il diritto con la conseguente regressione allo stadio tribale. A Borsellino jr. non è piaciuto che Sgarbi, in una intervista radiofonica rilasciata nel corso di una ‘tribuna politica’ trasformasse in ‘amicizia’ la conoscenza occasionale fatta di sua madre a Salemi. Potrei anche comprendere il suo disappunto ma, anche ammettendo il ‘millantato credito’ da parte di Sgarbi, dov’è la flagranza di reato che giustifica la ‘visita’ dei poliziotti alla sede di Radio Cammarata Cefalù? Quello che si vede, invece, è un comportamento che, indipendentemente dall’abuso d’ufficio (sul quale dovranno pronunciarsi i magistrati non i commentatori politici), fa pensare alla meridionalissima («absit iniuria verbis») concezione patrimoniale della funzione pubblica. «Hai commesso uno sgarro? Ti sei avvalso del mio nome per farti propaganda elettorale? Pagherai cara la tua leggerezza giacché, come prefetto, questore, magistrato, provveditore agli studi, intendente di finanza, sono io ad avere il coltello dalla parte del manico!». Viene in mente – anche se non sarà questo il caso di Borsellino jr – l’’abito del cuore’, invalso da Roma in giù, che vede nella carica pubblica una risorsa preziosa al servizio dell’eterno ‘familismo amorale’. «Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi !»: i vertici dell’amministrazione non si toccano altrimenti sono guai. Se Borsellino avesse inviato una lettera aperta ai giornali e avesse chiesto a Radio Cefalù di esporre la sua versione e di far conoscere urbi et orbi la sua ‘smentita’, si sarebbe comportato come un normale cittadino e avrebbe riscosso le simpatie di molti – e, forse, degli stessi simpatizzanti ed estimatori di Sgarbi. L’aver avuto, invece, una diversa reazione espone il fianco al sospetto (un sospetto, per carità, non una certezza!) che, in Sicilia, un commissario di polizia e, per giunta, non solo figlio di un eroico magistrato ma, altresì, nipote della pasionaria della sinistra palermitana, Rita Borsellino, non possa permettersi di fare la figura di John Doe ma sia tenuto a mostrare i muscoli anche se non sono i muscoli suoi ma quelli dello Stato( di cui, in teoria, è ‘servitore’ non ‘beneficiario’).

Ho concesso, in via di ipotesi, la ‘millantata amicizia’ ma si tratta poi davvero di una vanteria senza fondamento? La si chiami amicizia o ‘conoscenza’, non si può far finta di niente davanti all’encomium di Sgarbi fatto dalla Signora Borsellino all’Auditorium San Giovanni di Salemi – la «confidenza privata e vera, e non irriferibile» (”Caro Sgarbi, vedo in te una straordinaria somiglianza di carattere e di temperamento con mio marito”), invece, non dovrebbe venir presa in considerazione in mancanza di un documento scritto o di una registrazione che la comprovi. Sennonché l’innegabile rilevanza della questione, su quale piano si colloca poi? Non certo su quello giudiziario bensì su quello etico o meglio etico-estetico: uno stato che consentisse a Sgarbi un’azione penale contro Borsellino in virtù delle prove atte a smentire clamorosamente la decisa affermazione dell’inesistenza di qualsiasi rapporto di stima tra lui e la Signora Agnese Piraino Leto, sarebbe uno stato soffocante, persecutorio, espressione di autentico ‘fascismo giudiziario’ inteso come la giuridicizzazione di tutti i rapporti sociali, che è poi l’ideale che canta nei cuori di tutti i giustizialisti.
 Ci troviamo dinanzi a un normale conflitto di ‘interpretazioni’ che nascono da comportamenti non del tutto ineccepibili, da una parte e dall’altra – da parte di Sgarbi , a quanto è dato capire, per avere strumentalizzato, ‘per farsi bello’, il rapporto con la vedova Borsellino in una competizione elettorale, da parte di Borsellino jr per aver negato con caparbia e tracotante ostinazione tale rapporto ‘contaminante’ quasi fosse un delitto di lesa maestà. In una società liberaldemocratica normale, il contenzioso sarebbe stato portato davanti all’opinione pubblica ma, in Italia, sembra esserci da qualche tempo una via più diretta per farla pagare all’ «avversario»: la questura e il tribunale, quando l’una e l’altro stanno in ‘buone mani’.
 Ma non è finita. L’arroganza del potere – la consapevolezza di ‘poterselo permettere’ – ha portato il giovane Borsellino a offendere il suo interlocutore in maniera tanto più gratuita quanto meno perseguibile penalmente. (E’ un’arte che una certa parte politica conosce molto, molto bene…). Nessuna amicizia, scrive , il commissario «potrebbe mai instaurarsi tra un soggetto con il vissuto di Sgarbi e la vedova di Paolo Borsellino». Il messaggio è chiaro: la vedova di un martire della legalità non ha nulla da spartire con un losco personaggio col ‘vissuto’ di Sgarbi! Non è chi non veda che la «diversità», che impedisce ogni relazione amicale, non è né culturale, né ideologica ma etica. E la riprova è presto fatta: se nella frase, si sostituisse al nome di Sgarbi quello di Totò Riina, nessuno la troverebbe incomprensibile; ma se al nome di Sgarbi si sostituisse quello, che so io, di Piero Ostellino, l’affermazione diverrebbe enigmatica e/o insensata. C’è bisogno di dire perché? E di spiegare che il «vissuto» di cui parla Borsellino non allude a una diversità di filosofie politiche – come quella che potrebbe separare Agnese e Rita Borsellino dal prestigioso editorialista liberale doc del ‘Corriere della Sera’ – ma a una diversa qualità morale che renderebbe un incontro fuori questione e indecente una stretta di mano?
 C’è, comunque, un’ultimissima considerazione da fare e che non riguarda lo ius conditum ma lo ius condendum. In una società aperta, è davvero concepibile il reato di opinione? Ammettiamo pure che Sgarbi, nei «soliti attacchi a magistratura e forze dell’ordine» sia andato sopra le righe: e allora? Diversi anni fa, sul ‘Secolo XIX’, criticai con particolare durezza un attacco televisivo da lui rivolto a Giorgio Bocca e a Indro Montanelli, messi alla gogna per il loro passato fascista. Non mi convinceva allora certo suo stile aggressivo e non mi convince oggi: ma detto questo, il piano etico-estetico deve fondersi col piano giudiziario? E’ vietato accusare i giudici di far male il loro mestiere, di lasciarsi condizionare dai ‘teoremi’ e dalle passioni ideologiche, di emettere sentenze inique e lesive delle garanzie della libertà? Un cattolico può dissentire dalle prese di posizione, in fatto di bioetica, delle più alte autorità spirituali della sua religione, mentre un cittadino non può dire di vergognarsi (a ragione o a torto, non è questo il punto) dei suoi magistrati e di condividere, ad esempio, la disistima che manifesta Edward Luttwak nei confronti del nostro ‘ordine’ giudiziario? Se do del ‘buffone’ al Presidente del Consiglio esercito la mia libertà di critica, ma se lo do a un giudice o a un generale commetto un reato? Francamente non riesco a capire questa logica che sacralizza la persona di chi ha superato un concorso pubblico ma non protegge chi è stato eletto dal popolo sovrano. E’ vero che le masse elettrici sono ignoranti ed eterodirette quando non vengono guidate dai partiti e dai loro intellettuali ma l’etimo del termine DEMO-CRAZIA dovrebbe pur significare qualcosa e imporre qualche rispetto!. Non vorrei essere equivocato, personalmente condivido la sentenza del giudice che non ha ritenuto di dover condannare il militante reo di aver insultato Berlusconi ma non vedo perché si dovrebbe poi mettere sotto accusa un polemista come Sgarbi che, nei confronti di certi tribunali, usa espressioni non meno ‘vivaci’ (chiamiamole così).
 Mi è capitato spesso di prendere le distanze dai fondamentalisti del libertarismo ma, per quel che concerne il reato d’opinione, temo che essi abbiano ragione da vendere. Si legge nel loro blog – a firma di don Diego – «Che cos’è un reato d’opinione? È la scelleratezza suprema: non soltanto avere un’opinione ma addirittura esprimerla. |….| Per indorare la pillola, e anche un po’ per cercare riparo dalla nuvola di sputi che la scomunica delle opinioni generalmente attira su chi ha pronunciato l’anatema, a volte il reato d’opinione viene prudentemente ribattezzato ‘diffamazione a mezzo stampa’, ma la sostanza non cambia: nel mirino c’è sempre e soltanto l’opinione scomoda, il giudizio blasfemo, la critica irrispettosa».

Finché non si elimina la ‘diffamazione a mezzo stampa’ – cosa ben diversa dall’istigazione a delinquere che va punita severamente – si rafforza il circolo perverso che unisce giustizialismo, antiliberalismo, antagonismo, si umilia la libertà di critica dei governi e delle istituzioni, si spegne ogni creatività individuale nel ‘mito virtuista’ repubblicano.

Tempo fa sostenni che il reato di diffamazione a mezzo stampa manteneva ancora una sua innegabile ratio unicamente se riferito a comportamenti disonesti, nel senso che l’uomo della strada attribuisce alla parola ‘disonestà’. In altre parole, se Tizio accusa Caio di aver rubato, di aver abusato di una minorenne, di aver contraffatto una firma per estorcere denaro, deve risponderne davanti al giudice.« Mi puoi dare del fascista – esemplificavo un po’ rozzamente – e puoi persino darmi del cretino e sostenere che non capisco nulla – la scarsa intelligenza non è imputabile a nessuno – ma non ti è lecito dire che sono un lestofante». Con mia grande meraviglia, mi accorsi che se non fosse stato per un riguardo nei miei confronti, l’articolo non sarebbe stato pubblicato. L’italiano medio, infatti, preferisce essere considerato «mariuolo ma profondo», come Machiavelli per don Ferrante, piuttosto che «passionale ma in buona fede» e, pertanto, è portato a pigliarsela più con quanti lo fanno apparire come «un superfazioso onesto» che non con quanti lo giudicano pubblicamente .«un fior di gaglioffo ma che intelligenza!». Ne consegue che, se si accusa un magistrato di parzialità ideologica (e quindi di non essere all’altezza della carica che ricopre), il riconoscimento della sua integrità morale non pone affatto al riparo dalle incursioni poliziesche alla Borsellino jr (siano o non autorizzate dal PM) .E’ come se si istituzionalizzasse un vero e proprio ‘carisma d’ufficio’: le parole ex cathedra conferiscono a chi le pronuncia una sorta di immunitas in virtù della quale la libertà di critica è ampiamente riconosciuta purché si sia disposti ad accompagnare le accuse indirizzate al Potere non con la chitarra ma col ..tintinnio delle manette.