Mangiare “Al Ceppo” è come rituffarsi nel film Marcellino pane e vino
24 Agosto 2010
Ritorniamo a chiacchierare di un ristorante di servizio, inteso in senso stretto, di un locale, cioè, dove non si può certamente affermare si mangi male, ma presso il quale, tuttavia, pur utilizzandosi materie prime di assoluta eccellenza – se così non fosse, non vi sarebbe recensione di sorta – si riscontrano talune criticità.
Gli affezionati lettori della rubrica ricorderanno che abbiamo convenuto di collocare tra i ristoranti di questa tipologia due generi di locali: esercizi un tempo di prima grandezza, avviati verso un’inesorabile decadenza, a meno che non intervenga, in tutta fretta, un vigoroso cambio di rotta, atto a dar loro nuova slancio, ovvero, all’opposto, realtà recenti, decisamente interessanti e promettenti, per le quali, tuttavia, alcuni difetti e discrasie ancora non consentono di attribuire loro la qualifica, tout-court, di eccellenti.
Al Ceppo, il locale della Capitale di cui oggi ci occupiamo, è paradigmatico della prima specie di ristoranti di servizio. Devo dire che l’ultima volta che vi sono stato a cena mi ha risvegliato antichissimi ricordi letterario/cinematografici, senza che ciò, tuttavia, possa davvero ascriversi a suo merito. Mi spiegherò meglio di seguito.
Vidi il primo film della mia vita – e ne ho vivissima memoria – intorno ai cinque anni, nei primi mesi del 1956, su iniziativa di mia madre, sin da ragazza appassionata cinefila. Si trattava di “Marcellino pane e vino” e la proiezione era in cartellone in una sala cinematografica, il cinema “Splendor” di Asti, caratterizzata da malandati, scricchiolanti e scomodi sedili, tutti in legno, come d’uso, anche in anni più recenti, nelle sale parrocchiali e nei cineforum di periferia. Lo Splendor non era né l’una né l’altro, ma, a dispetto del nome, solamente un locale assai vecchiotto, sopravvissuto, senza ammodernamento alcuno, ad un allestimento, sin dall’origine modesto, risalente alla metà degli anni ’30.
La pellicola di Ladislao Vajda , contrariamente al libro di Sanchez Silva, da cui era tratta e che lessi anni dopo, fu un grande amore estetico della mia prima giovinezza. Ciò, in quanto, più che dalla storia narrata o dalla recitazione del mio quasi coetaneo Pablito Calvo, fui molto colpito dalla luce contenuta nelle immagini in bianco e nero di una Spagna assolata e polverosa. Un’analoga emozione mi diede, ormai adolescente, la “prima volta” di Casablanca: in particolare, nella parte finale del film, la ripresa, in primo piano, del volto di Ingrid Bergman, con gli occhi imperlati di lacrime: un fotogramma fatto di infinita luminosità.
Al Ceppo, però, non mi ha ricordato “Marcellino pane e vino” per ragioni estetiche, bensì proprio per lo specifico contenuto della storia narrata nel film, che mi è parsa l’estrema ed invero non esaltante sintesi della mia serata.
Conosco questo storico esercizio del romano quartiere Parioli dai primi anni della sua apertura ed ero uso frequentarlo, sempre assai lietamente, con un caro e vecchio amico, maestro di vita non solo professionale, purtroppo scomparso da molto tempo. In allora, in luogo dell’attuale veranda interna, vi era ancora un vero e proprio spazio a cielo aperto e, nel complesso, l’ambientazione del ristorante risultava un poco più popolaresca. Rispetto a quegli anni, il locale, sempre in mano alle stesse proprietarie, è oggi più elegante e raffinato, ma ormai carente nelle elaborazioni dei piatti. Intendiamoci: una caratteristica è rimasta inalterata: l’eccellenza delle materie prime – però soltanto delle principali – ma l’insieme delude. Ferma restando la generale accettabilità dei primi, delle varie proposte alla griglia e di qualche dolce, i piatti ittici – in effetti, non nella tradizione della casa – risultano mediamente mediocri. Su alcune situazioni vi sono, poi, delle vere e proprie cadute.
Facciamo un esempio: tra i secondi piatti il menù propone la “tartare”, cioè un’elaborazione avente canoniche caratteristiche, salvo diversa, espressa specificazione. La tartare servita risulta un piatto di ottima carne cruda, correttamente tagliata a coltello, elegantemente impiattata in forma di cilindro, ma nulla ha a che fare con questo classico della gastronomia internazionale la riduzione di vino rosso con cui viene accompagnata, l’assenza di senape e di tuorlo d’uovo e, purtroppo, la presenza, a latere, di foglie di insalata varia, un po’ avvizzita, parente troppo prossima delle buste di insalata mista, dimenticate nei banconi dei supermarket.
Se, tuttavia, le varie proposte di piatti risultano – come ho detto – ormai abbastanza deludenti, al pari di un servizio piuttosto distratto, due cose de Al Ceppo si qualificano, tuttora, come assolutamente straordinarie: il pane fatto in casa, vario e fragrante – veramente buonissimo – e la carta dei vini, una delle più complete e ricche della città, connotata da ricarichi abbastanza ragionevoli.
Se, quindi, al presente, in questo locale ci si sente alla stregua di “poveri Cristi”, costretti a pane e vino, come nella poetica storia di Marcellino, anche per ragioni di carattere sentimentale, mi auguro di poter presto tornare a segnalare che Al Ceppo non è più un locale “inceppato” ed è ritornato, nuovamente, tra le eccellenze della Capitale, con un rapporto qualità/prezzo adeguato, in luogo dell’attuale, palesemente sproporzionato per le evidenziate ragioni qualitative.
Al CEPPO Via Panama, 2 – telefono 06/8419696 – chiuso il lunedì