Mario Capanna, i miei ultimi quarant’anni

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Mario Capanna, i miei ultimi quarant’anni

Mario Capanna, i miei ultimi quarant’anni

21 Marzo 2008

E’ straordinaria la capacità di alcuni personaggi del nostro panorama
politico-culturale di sfruttare all’infinito gli eventi a cui è capitato loro
di partecipare. Sembrava che con Formidabili
quegli anni!
, nel 1988, Mario Capanna dovesse aver esaurito il  potenziale maturato con la dirigenza del
Movimento Studentesco all’epoca: con un libro esile esile che celebrava i venti
anni dal Sessantotto, era tornato sulla scena, al centro di interviste,
incontri, interesse mediatico. Nemmeno per idea. E’ seguita Lettera a mio figlio sul Sessantotto
(2005) e ora, a quarant’anni dai fatti, Il
Sessantotto al futuro
. I primi due prodotti sono uniti da una
caratteristica: la povertà dell’argomentazione. A differenza di chi ha molto da
raccontare sugli eventi a cui ha partecipato, e da leader, Capanna non ha molto
da raccontare: e infatti racconta poco. Dà tutto per scontato: come si svolsero
le cose, quali erano le forze in campo, chi erano i protagonisti della vita
politica del paese e i capi del movimento di protesta. Ma ha anche molto poco
da commentare: e infatti le riflessioni sono esigue, forzate, fuori tema, come
in un compito che si tira in direzioni a noi più consone, ma in modo forzato e
con esiti poco felici. Il terzo e più recente volume invece muta radicalmente
registro: si misura con concetti, e anche con concetti forti, prende posizione
su temi non solo impegnativi ma addirittura epocali.

Il punto sul quale spinge a fondo, come sempre, è la nostalgia: ma,
anche per chi volesse per un attimo fare il reduce e ricordare se stesso
giovane e in eschimo, credo sarebbe davvero difficile lasciarsi prendere dalla
prosa banale, dalle rievocazioni letterali, da descrizioni che rasentano il
verbale della forza pubblica. Quello che colpisce è che, del Sessantotto che
rievoca nelle sue pagine, non c’è niente: né la confusione e la complessità dei
movimenti e partitini che si contendevano la scena, né lo spaesamento dei più
giovincelli che avevano appena abbandonato i banchi della scuola media, né il
rimescolio che la giovane età più della politica (e comunque coniugata alla
politica) sapeva procurare, né la cultura di quegli anni, di quei mesi, né la
musica, né il cinema. Al centro dei volumi c’è lui, Mario Capanna: che vive di
rendita su quegli eventi e la rievocazione degli stessi da anni. Patetico, in Formidabili quegli anni!, l’episodio
(che chiude il libro) del soggiorno con i pellerossa: nemmeno nei western
critici più buonisti avevamo trovato tanta immediata solidarietà con gli
Indiani, tanta comprensione a colpo d’occhio, tanto veloce antiamericanismo.

In questa ultima fatica – sempre sullo stesso argomento – troviamo a un
certo punto, invece della miseria argomentativa alla quale eravamo abituati, un
momento concettuale di autentica grandiosità: è il punto in cui Capanna
istituisce un confronto tra Sessantotto e Rivoluzione francese per concludere
con la supremazia del primo sulla seconda. Scrive infatti: “La rivoluzione del
1968 non ha precedenti, e ciò risulta evidente dalle sue caratteristiche
inedite. In primo luogo per la sua quasi incredibile ampiezza – e simultaneità –
planetraia: ogni continente ne fu percorso. In secondo luogo perché non aveva
come obiettivo la presa del potere, secondo i canoni di una rivoluzione
classica, ma la radicale messa in discussione dei presupposti su cui il potere,
in ogni sua forma, è stato storicamente costruito, e la rivendicazione di
essere diversi rispetto a coloro che il potere lo detengono. (..) è stata l’unica rivoluzione non consumata.
Ovvero, non finita stritolata nelle dinamiche simmetriche a quelle che
intendeva combattere. Come accadde, per esempio, alla Rivoluzione francese.” E
prosegue: “Un paragone fra il 1968 e il 1789 non è solo pertinente, ma è anche
illuminante.” Vediamo perché: la
Rivoluzione francese non fu planetaria, sebbene “pagina
decisiva nel percorso della storia umana”, “conobbe tragici eccessi e orrori”,
ebbe bisogno del culto dela Ragione e dell’Essere superemo, sentì la necessità
di affidarsi a un Robespierre e a un Napoleone. Niente di tutto questo nel
Sessantotto. E poi, la
Rivoluzione francese conobbe un “giacobinismo guerresco”: il
Sessantotto, invece, “costituisce la critica più radicale ai presupposti stessi
della guerra – di ogni guerra.” Conclusione: Sesantotto batte Rivoluzione
francese 4 a
0. Ovvero: “si pone a una distanza enorme dalla Rivoluzione francese (..) e va
oltre lo stesso orizzonte culturale dell’Illuminismo (fatto salvo il grande
Kant di Per la pace perpetua).” E
così, data una pacca di incoraggiamento a Kant, anche l’illuminismo è superato.

Personalmente non penso del Sessantotto tutto il male che si legge in
giro: ritengo che partecipare a quel movimento non fornisca  in modo automatico né le stimmate della grazia
né il marchio d’infamia della dannazione. E’ anche difficile dire che esista
qualcosa come uno spirito, un modo d’essere, che derivi automaticamente da
quegli anni: tanti e tanto diversi sono stati i protagonisti, i partecipanti,
le motivazioni, le ideologie e gli esiti del Sessantotto. Ma, francamente, se
si continua a parlarne così (invece, fra l’altro, che studiarlo seriamente come
sarebbe ora di fare), non si farà altro che un danno. E avranno ragione i giovani
attuali a sentire queste rievocazioni come vecchie, come e più di quanto i giovani
del Sessantotto percepivano come lontane, vecchie e superate le rievocazioni
del fascismo e della Resistenza.

A noi poi resta un dubbio: non sarà che il Sessantotto è diverso dalla
Rivoluzione francese perché, semplicemente, non fu una rivoluzione?

  

 

 

 

recensione a: Mario CAPANNA, Il Sessantotto al futuro, Milano,
Garzanti, 2008.