Maschi o femmine? Alla ricerca dell’unità dimenticata
13 Aprile 2008
Luce Irigaray si
pone da alcuni anni il problema di ricomporre quel mondo unitario che il
pensiero della differenza aveva diviso in due parti: maschile e femminile. Ma
non vuole ricomporlo come era prima: neutro, falsamente oggettivo, privo del
femminile rimosso e cancellato. Scrive l’autrice in La via dell’amore (testo
del 2002 pubblicato solo ora): “Laddove l’umanità credeva di aver concluso il
suo percorso, accettando di essere scissa in due, apre lo spazio della sua più
decisiva creazione. Il mondo allora si rovescia, non per chiudersi una seconda
volta, per dissolvere la sua fatticità nel nulla o ricostruire un universo
indefinitamente frammentato, ma per riconoscere un’obliata differenza, la più
irriducibile differenza: quella che divide l’esere umano stesso senza
superamento possibile della scissione. Mai compimento dell’Uno, dunque, ma
costituzione di due mondi aperti e in relazione l’uno con l’altro, e che ne
generano un terzo come opera comune, come spazio-tempo da condividere.” Il
mondo unitario da ricostituire deve cioè tener conto della differenza che vi è
stata introdotta, sottolineata, recuperata: non dovrà vivere in esso il
principio di identità ma piuttosto quello di differenza, rispetto, unità come
convivenza fra soggetti diversi.
La via della
ricomposizione proprio qui, dove viene più fortemente espressa e sentita,
risulta anche più debitrice di una impostazione heideggeriana e mistica
indicata dal titolo: la via dell’amore. I richiami al filosofo tedesco sono
molti e evidenti: dalla creazione di un linguaggio poetante che non esiste
ancora, non è un dato e in cui possa dimorare l’essere, fino alla critica nei
confronti dell’imperialismo della tecnica che l’autrice riprende in modo
letterale. Ma si tratta anche di una via mistica alla ricomposizione: il mondo
che interessa Irigaray e che vuole restituire alla sua unità non è affatto
quello che la scienza, la tecnica, la ragione, conoscono, non è il mondo che
l’industria trasforma, bensì il mondo vivente del silenzio, della natura, del
divenire, nei confronti del quale non bisogna imporre rappresentazioni che ce ne offrirebbero solo
immagini.
Così, questo libro
è una laudatio della filosofia, ma
non della filosofia maschile che ha dominato finora, ma di quella riflessione
non astratta e non mentale costituita della saggezza dell’amore. E’ in questo
punto che tradizione cristiana e heideggerismo si incontrano: la critica
dell’imperialismo della tecnica, la spiritualizzazione dell’istinto, l’altro
come luogo del silenzio che deve essere ascoltato, il disdegno per ogni
consumismo che riduce il mondo a merce, la natura pensata come animata
panteisticamente dal divino, l’unità consapevole formata da soggetti
differenti. Scrive Irigaray: “Sembra che l’uomo, nello svolgersi della cultura,
della Storia, non abbia smesso di allontanarsi da sé.” Il compito che si
propone è riportarlo al sé, in contatto con la sua interiorità. Questo cammino
si pone decisamente in direzione contraria rispetto alla ragione occidentale,
dominatrice e asservitrice, assassina del vivente del quale fa qualcosa di
morto: si svela subito come una ricerca di verità, di ineffabile, di impensato
e forse di impensabile. Deve essere compiuto con gli strumenti adatti: un
linguaggio poetico e non razionale, l’ascolto dell’essere invece del calcolo.
Afferma l’autrice: “Andare alla ricerca di sé, soprattutto nella relazione con
l’altro, rappresenta un’opera non ancora effettuata dalla nostra cultura della
parola. Questo incamminarsi verso l’interiorità e nell’interiorità, lo ha poco
esplorato, lasciandolo al silenzio del senza-vocaboli, alla notte del
senza-luce, cui dovrebbe rassegnarsi il poeta al fine persorso, o il mistico
nel suo cammino.”
Nella esigenza di
ricomporre un mondo unitario si trovano anche le ragioni della politica
(anch’essa dissolta nella pars destruens
del pensiero della differenza), così come della scienza, della tecnologia, di
tutti i campi del sapere e della realtà. Restiamo alla politica: finora essa ha
fatto riferimento a un mondo unico composto di uomini e donne, e a quel mondo
nel quale viviamo ha posto problemi, dato regole, stabilito obiettivi da
raggiungere e limiti da non valicare. Solo se il mondo comune viene posto come
necessità da pensare e da raggiungere, la politica può essere reintrodotta
nell’orizzonte segnato dal pensiero della differenza. Ma, non appena posto,
l’obiettivo è quasi dissolto dalla via che viene indicata per il raggiungimento
di esso: la via dell’amore, appunto. La via dell’amore si oppone alla via della
ragione, del calcolo, del dominio. E si sposa bene con i temi che ispirano quest’opera: la critica della tradizione
occidentale, la riscoperta di vie alternative alla ragione che ritrova nella
mistica, nella poesia, nell’Oriente, nella creazione di un linguaggio vivente
che non esiste ancora. Il passaggio dall’uno al due è significativo di una
uscita dall’attenzione al sé, e su questa strada si arriva a incontrare gli
altri. Ma qui si incontrano non gli altri: si incontra l’Altro. Si passa cioè
da una ricerca circostanziata a una mistica (elevazione spirituale
dell’attrazione, natura vivente, corrispondenza microcosmo-macrocosmo) oppure a
una ontologia (che cos’è l’Altro se non l’essenza degli altri)? Afferma Irigaray:
“La luce che allora brilla è quella di un sole intimo che mantiene e fa
crescere la vita senza illuminarla di una luce diurna.”
E ci lascia davvero
senza speranza.
Luce IRIGARAY, La via dell’amore, Torino, Bollati Boringhieri, 2008