Massimo Teodori al Grand Hotel dei laici

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Massimo Teodori al Grand Hotel dei laici

Massimo Teodori al Grand Hotel dei laici

24 Ottobre 2008

“Grand Hotel, gente che va, gente che viene…” dice il dott. Otternschlag (Lewis Stone)  nella scena finale del film di Edmund Goulding del 1932. E’ la battuta che fa venire in mente la lettura della ‘Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista’ (Ed. Marsilio) di Massimo Teodori. Quello scelto dall’autore è un Grand Hotel di tutto rispetto giacché per entrarvi si richiedono le ‘carte in regola’ ovvero le certificazioni che si è avversi sia al totalitarismo fascista che a quello comunista e che il fondamentalismo religioso non fa parte del proprio DNA etico-politico. Insomma è il liberale classico, occidentale, ad avervi diritto di accesso e fin qui niente di male. Il problema è che siamo in Italia e da noi si può solo registrare soltanto un viavai di clienti che, per la maggior parte, cambiano di continuo sicché i pochi ospiti fissi – da Mario Pannunzio a Nicola Matteucci – sono destinati a non avere mai gli stessi commensali. Basta, infatti, abbassare la guardia nei riguardi di uno dei tre satanassi – fascismo, comunismo e neotradizionalismo cattolico – per venire invitati a lasciare l’albergo.

 Creare “una moderna forza di democrazia laica, al confine tra la liberaldemocrazia e il radicalismo socialista” non è compito agevole, nel nostro paese, come dovette sperimentare, a sue spese, il Partito d’Azione “una forza nuova non impastoiata nelle diatribe dei vecchi partiti che avevano portato alla sconfitta i ceti liberali e democratici nel prefascismo”. Le ragioni di tale insormontabile difficoltà, nel libro, non vengono mai messe a fuoco: si va dalle “incompatibilità tra disegni politici divergenti” alle spigolosità di carattere, dalle tentazioni intellettualistiche alle ‘amicizie pericolose’ nate dalla necessità della lotta politica. Certo si comprende come l’alleato di una campagna militare possa trasformarsi in amico, quello che si capisce meno, invece, è perché avrebbero dovuto costruire la casa comune laica quanti sui temi cruciali della politica interna e della politica estera avevano idee divergenti se non incompatibili. E ancor meno si comprende come si possa farne la storia  solo perché si sono incontrati, in una stagione importante della loro vita, nello stesso albergo.

Si prenda la svolta cruciale della Costituente: i due liberalismi del tempo –quello  ‘conservatore’e quello azionista e repubblicano – si ritrovarono su barricate opposte: “Più in generale i costituenti liberali si attestarono sulla difesa dello Stato di diritto proponendo che gli interventi pubblici sul terreno economico e sociale fossero bilanciati dal rafforzamento dei diritti individuali e delle minoranze nel quadro delle regole di mercato. Si trattava della visione garantista che comportava la difesa del metodo legale nell’esercizio del potere come argine dello Stato liberale, una visione del tutto opposta alle ipotesi di discontinuità propugnate da azionisti e repubblicani. Le divergenze tra liberali-conservatori e azionisti-repubblicani non finirono qui. Sulla forma dello Stato i liberali difesero il parlamentarismo classico contro il progetto di repubblica presidenziale di Calamandrei e Valiani. Sulla Corte costituzionale essi prevalsero con il rafforzamento dello Stato centrale nei confronti degli azionisti e dei repubblicani, favorevoli a un’articolazione dei poteri basati sulle autonomie locali. Anche nei rapporti tra Stato e Chiesa, una parte di loro si dichiarò favorevole all’art. 7 della Costituzione, mentre gli azionisti e i repubblicani, insieme ai socialisti, vi si opposero”.

 A unire intelligenze e sensibilità così diverse sarebbe rimasto, quindi, l’antitotalitarismo sennonché un collante ‘negativo’ – ci si unisce, superando i motivi di divisione, quando ‘Annibale è alle porte’ – funziona solo se una comunità politica è esposta a un rischio mortale. Ma era proprio questo il caso dell’Italia del secondo dopoguerra? Il paese correva davvero il pericolo di ridiventare fascista, dopo la tragedia bellica voluta dal regime, l’invasione degli Alleati, i morti della guerra civile, o, all’opposto,  di farsi bolscevico in presenza di una Chiesa cattolica– l’unica potenza sopravvissuta alla fine del regime e della monarchia– così radicata nel territorio e con una ‘tradizione civica’nelle campagne, chiusa a ogni cambiamento sociale, che non placasse la ‘fame di terra’?

 Stando a Teodori, senza la minoranza laica, saremmo finiti male. “I meriti dei terzaforzisti non furono pochi. Senza i liberali e gli azionisti non vi sarebbe stato l’antifascismo democratico con valori e obiettivi contrapposti a quelli comunisti. Senza le esili rappresentanze liberaldemocratiche alla Costituente la cultura politica liberale, contrappeso alle predominanti influenze cattolica e comunista, sarebbe stata assente nel momento decisivo dell’elaborazione della Costituzione. Senza la presenza dei partiti laici e dei gruppi culturali affini, le stret­toie della Guerra fredda sarebbero state ancora più strette: l’ingresso nel Patto atlantico sarebbe stato più difficile; e sarebbero state molto più deboli le resistenze alle tentazioni di un "regime forte" con il restringimento delle libertà e dei dirit­ti civili, come avrebbero voluto gli ultraconservatori degli ambienti clericali, militari e imprenditoriali”.

 Non vorrei essere frainteso: sia i liberali conservatori che quelli progressisti hanno svolto un  ruolo altamente benemerito nella difesa della laicità dello Stato ma tale ruolo sarebbe stato possibile se una vasta parte del mondo cattolico–De Gasperi non fu il fiore solitario sbocciato sui monti di pietra– non avesse nutrito salde convinzioni liberaldemocratiche (e pertanto antifasciste) e se i partiti socialcomunisti non avessero fatto muro contro i gli sterili conati autoritari di un clericofascismo, spesso esagerato ad arte?

Nel racconto di Teodori ci sono non poche incongruenze ma la più curiosa sta nella tetragona sicurezza con cui, da un lato, sussume sotto una stessa categoria i suoi santini laici   oggettivamente divisi su tutto, e, dall’altro, contesta l’assunzione dell’azionismo a ‘categoria identitaria’.”Dopo la chiusura del Partito d’Azione, fa rilevare, si manifestarono solo vicende politiche divergenti e itinerari contraddittori: presi singolarmente, gli ex azionisti sono stati moderati e giacobini, filocomunisti e anticomunisti, liberali-liberisti e statalisti-nazionalizzatori, uomini d’ordine e fiancheggiatori degli insorgenti, fedeli atlantici e ostinati terzomondismi, utopistici e realpolitici, perfino accusati di essere parafascisti oltre che paracomunisti. In breve, dall’antica salsa azionista è possibile estrarre tutto e il contrario di tutto: segno che la reductio ad unum dell’azionismo è solo un esercizio intellettualistico”.

 Se questo è vero, se tra i post-azionisti si trovano sia gli amici degli “insorgenti” (termine pudico che sta per terroristi e BR) sia gli autoritari, perché quell’eredità continua ad essere da alcuni rivendicata e da altri esorcizzata? In realtà, come il fascismo e il cattolicesimo sociale, anche l’azionismo presenta molteplici volti nei quali, tuttavia, i contemporanei come i posteri  leggono una inconfondibile ‘aria di famiglia’. Nel caso del fascismo il comun denominatore è costituito dal disegno di rimettere la casa in ordine, di assicurarle uno spazio vitale e di restituirla all’onor del mondo, liberandola dalle pastoie istituzionali del parlamentarismo, dei partiti, dei sindacati antinazionali. Nel caso dell’azionismo, il comun denominatore è rappresentato dalla ‘riforma morale e intellettuale’ degli italiani, da un’altissima tensione ideale portata a vedere nella dittatura mussoliniana l’esito naturale di una degenerazione culturale e antropologica iniziata dalla Controriforma e non sanata dal Risorgimento. Tutt’altro che ‘metafisica’, la ‘categoria generale’  ha un contenuto ben preciso :la ‘mistica antifascista’, l’idea, di lontana ascendenza gobettiana, che la provincia profonda italiana sia una palude malsana cui si debbono le pagine più buie della storia nazionale–dalla ‘marcia su Roma’ alla ‘marcia dei Comitati Civici’ di Luigi Gedda (che un padre nobile del Partito d’Azione, il  ragionevole e moderato Gaetano Salvemini, definiva tout court ‘fascista’).

 Dietro il tratto ‘antitaliano’ dell’azionismo, si cela a ben riflettere, una concezione della democrazia non poco anomala, almeno sotto due aspetti. Il primo riguarda la sintesi azionista, le nozze tra giustizia e libertà: in una società liberale i due termini compendiano le due legittime polarità di un sistema politico–a destra, i conservatori custodi dei ‘diritti (al plurale) di libertà’, a sinistra, i socialdemocratici, impegnati in una più equa distribuzione delle risorse sociali. Se le due anime diventano una sola, quello che si vuole fondare rimane, se non l’unico partito legale –del tipo ‘Partito del Congresso’ delle democrazie afroasiatiche–, l’unico partito legittimo, dal momento che si lascia a destra i detentori del privilegio sociale e a sinistra i pianificatori liberticidi.   

Il secondo aspetto, ancor più rilevante, concerne l’idea stessa di democrazia, che, negli azionisti, si tinge di giacobinismo non per la volontà di mozzare le teste ma per la lontananza siderale da quella  ‘filosofia della registrazione’in cui Tocqueville aveva visto lo specifico nordamericano della modernità politica: la ‘polis’ non come collegio rieducativo diretto dai mentori della nazione ma arena o mercato in cui si confrontano e si vendono programmi di governo in base alle richieste, ai bisogni, alle attese della gente comune.

Alla luce di questi rilievi, c’è da meravigliarsi che l’azionismo sia oggi la bandiera di ‘Repubblica’, di ‘Micromega’ e delle altre riviste e rivistine dell’antiberlusconismo teologico? E, d’altronde, non è lo stesso Teodori che, a conclusione della sua ‘Storia’, addita come modelli di laicità liberale non Angelo Panebianco o Piero Ostellino o Girolamo Cotroneo ma Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky ovvero le punte di diamante di quella scuola di pensiero che chissà perché non vuol riconoscere erede dell’azionismo?