#Matteononstarsereno, firmato Enrichetto
29 Gennaio 2018
#matteononstarsereno, firmato Enrichetto. “Nel rapporto con l’opinione pubblica questa vicenda si traduce in un altro insperato e immeritato regalo a Berlusconi e ai Cinque Stelle. Una incredibile corsa verso l’abisso”. Così Fabio Martini sulla Stampa del 29 gennaio raccoglie il commento di Enrico Letta alla formazione delle liste organizzata da Matteo Renzi. Alla fine si è constatato come le vittime delle manovre del genio di Rignano siano state più gli amici di Paolo Gentiloni, Marco Minniti, Carlo Calenda, e Beppe Sala che le malandate Sturmtruppen di Orlando&Emiliano&Cuperlo. Visto che la popolarità ancora possibile del Pd poggiava solamente sul prestigio di qualche uomo al governo o di qualche amministratore, sembrerebbe di trovarsi di fronte a un caso da “muoia Sansone con tutti i filistei”. Magari si tratta come spiega Piero Ignazi sulla Repubblica del 29 gennaio di disporre di “una falange così compatta” che “potrà manovrare a piacimento su ogni terreno in Parlamento”. Però l’uccisione evidente della politica fa presumere che “questa falange” servirà più a coprire gli abituali interessi dei soliti amici che a dare una prospettiva alla nazione.
Quando gli eroi perdono il controllo del proprio eroismo. “La mia applicazione a questo processo termina qui. È un processo che ho seguito dall’inizio e che ha portato tante polemiche. Ho capito subito che avrei pagato un costo. Hanno più volte detto che le nostre azioni erano caratterizzate da finalità eversive. Nessuno ci ha difeso” così il sito on line del Sole 24 ore del 26 gennaio riporta una dichiarazione di Nino Di Matteo. Non so ancora come andrà a finire il processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, però alcune cose mi sembra di averle capite: il pm Di Matteo per molti versi è un personaggio eroico, sfida da tempo immemorabile un’organizzazione mortale come la mafia senza tirarsi mai indietro, ma a mio avviso ha fatto una scelta obiettivamente eversiva: ha messo sotto accusa un presidente della Repubblica che non mi piace come Oscar Luigi Scalfaro, ha chiesto sei anni di reclusione per un ministro degli Interni decente come Nicola Mancino e ha chiesto 15 anni di carcere per uno che è un eroe tale e quale i pm antimafia, il generale Mario Mori. Parafrasando Hegel si tratta di considerare come le massime tragedie nascano non quando si scontrano due mascalzoni, bensì due eroi. Questa vicenda -che vede uno dei più amati e abili ufficiali dei carabinieri processato per ormai un’infinità di volte, e un’indagine non su veri reati ma sulla politica – dimostra come l’ordine giudiziario italiano sia finito, almeno in alcune (ma rilevanti ) aree, ad agire fuori da una logica razionalmente comprensibile, contribuendo così in modo decisivo alla disgregazione di una nazione e di uno Stato.
Ma Gentiloni e i suoi possono vincere con il loro slogan “France is back”? “Emmanuel Macron a lancé «France is back»”. Jean-Pierre Robin su Le Figaro del 27 gennaio scrive che Marcon a Davos ha voluto segnalare innanzi tutto una cosa, che “France is back” che Parigi è tornata protagonista della scena internazionale. Probabilmente questa accelerazione nazionalistica (più la sua perfetta attitudine da commesso viaggiatore) è l’unico modo che Macron ha per cercare di tenere unito (almeno per un po’) il suo popolo. Che Paolo Gentiloni, Emma Bonino, Carlo Calenda. Marco Minniti (peraltro ben ben segati dal genio di Rignano) e lo stesso riluttante ma sBarackato e deHillaryzzato (con perdipiù persino la JpMorgan allineata a Donald Trump) cioè Matteo Renzi pensino di sopravvivere con lo slogan “France is back” è invece una scelta disperata. Per quanti possano essere i nostri concittadini sconsolati (e di sbandati ce ne sono tanti, si consideri quanti vogliono votare quella protesta senza proposta che è rappresentata dai grillini), è difficile che possa superare il 25 % una coalizione che dichiara apertamente di voler l’Italia commissariata.
Oggi in Spagna, domani in Europa. “El Consejo de Ministros ha aprobado este viernes que el Gobierno impugne ante el Tribunal Constitucional la candidatura de Carles Puigdemont a la investidura como presidente de la Generalitat. Esa decisión abre una crisis institucional de alcance imprevisible. El Consejo de Estado considera que en este momento no se ha producido ningún hecho que justifique dar ese paso: el líder independentista es diputado de pleno derecho y la orden de detención que ha dictado contra él el Tribunal Supremo no le impide ser candidato. No obstante, el Gobierno ha desoído ese informe porque la candidatura de Puigdemont será suspendida automáticamente si el Constitucional admite a trámite su recurso. Por esta vía, el Ejecutivo pide a Roger Torrent, el presidente del Parlament, que proponga a otro candidato que no tenga cuentas pendientes con la justicia, lo que excluye a los diputados que se encuentran huidos en Bélgica y a los que están en prisión provisional (entre ellos, Oriol Junqueras)”. Anabel Diez e Juan José Mateo scrivono su El Pais del 26 gennaio che il Consiglio dei ministri ha impugnato presso il Tribunale costituzionale la candidatura di Puigdemont a presidente della Generalitat catalana. Questa decisione apre una crisi istituzionale dagli esiti imprevedibili, dice il quotidiano liberal di Madrid. Si sta creando una divaricazione tra diversi livelli di decisione istituzionali, dal Consiglio di Stati alla “Corte suprema” fino a quella costituzionale (che poi impone a Puigdemont di farsi arrestare per essere eletto presidente della Generalitat), largamente influenzata dall’obiettivo di impedire che i vincitori delle elezioni catalane del 21 dicembre possano governare. Mariano Rajoy, che si era dimostrato per una certa fase un governante capace e un politico prudente, sta perdendo la testa. Alla fine prevale anche in terra iberica quel rifiuto della politica e del voto popolare che sembra il mainstream bruxellese-berlinese dominante nel nostro Continente. Una tendenza sciagurata.