Melloni fa un dizionario del sapere religioso senza mai citare Ratzinger

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Melloni fa un dizionario del sapere religioso senza mai citare Ratzinger

10 Ottobre 2010

Si sentiva il bisogno di un “Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento”. Nel secolo delle eresie fascista e comunista, religioni secolari impegnate a cancellare ogni traccia della cristianità, il sacro è in tutti i sensi un elemento determinante.

Il Novecento è stato anche il teatro della secolarizzazione, delle teologie progressiste della morte di Dio, delle nuove forme di spiritualità postmoderna come il variopinto universo New Age e del Concilio Vaticano II. A Bologna, proprio per studiare, ricordare, propagandare il mito del Concilio, è nata e fiorita una scuola ad opera dello storico Giuseppe Alberigo, allievo di Dossetti, alla guida della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII, che ha trovato nelle edizioni del Mulino lo sbocco editoriale ideale. Deceduto Alberigo nel 2007, le redini di guida  del laboratorio della mitologia conciliare sono passate a Alberto Melloni, storico e commentatore di punta del “Corriere della Sera”, curatore appunto per il Mulino di due volumi freschi di stampa del corposo (2000 pagine circa) “Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento”.

Questa interessante e utile iniziativa editoriale nasce però con un grave vizio: l’apologia conciliare e il necessario nascondimento di quanti hanno contestato apertamente questa apologia. Ne volete un esempio? Provate a cercare un riferimento al pensiero teologico di Joseph Ratzinger? Non lo troverete. Ratzinger nel percorso teologico novecentesco non esiste. Il perché di questa così vistosa e ingiustificata assenza? Ratzinger è stato da teologo (professore o “guardiano della fede” poco importa) il demolitore della vulgata conciliare. Nessun accenno a Ratzinger, dunque, ma ben quindici pagine dedicate alla “teologia della liberazione”, la quintessenza della mitologia conciliare, opera di Lucia Ceci. La “teologia della liberazione” ebbe proprio in Ratzinger (responsabile vaticano dell’ortodossia dottrinaria) il più severo oppositore. Naturalmente nel Dizionario la considerazione della “teologia della liberazione” è massima, e la condanna dell’ex Sant’Uffizio un grave errore dottrinario.

La “teologia della liberazione” incarna l’ultimo retaggio, ormai abbondantemente superato, del Sessantotto cattolico (la nuova teologia prese forma proprio nel clima incandescente del 1968 nel corso dell’assemblea tenutasi a Médellin, appoggiata largamente dai vescovi latino-americani), caduto non perché la Chiesa ha espresso una formale condanna, ma perché si è dissolto il comunismo, entro il cui orizzonte  la “teologia della liberazione” si è storicamente  collocata. Scriveva Ratzinger nel 2000: «Per oltre un decennio la teologia della liberazione sembrò indicare alla fede la nuova direzione da prendere per tornare ad essere incisiva nel mondo». In quel clima vertiginoso sembrava che Marx e il marxismo rappresentassero la giusta via. Ma tutto ciò si è rivelato un fallimentare fraintendimento.    

 

Joseph Ratzinger nel gennaio del 1982 si era stabilito a Roma, chiamato da Giovanni Paolo II dalla sua residenza di vescovo di Monaco di Baviera (dove era stato insediato da Paolo VI nel 1977), per ricoprire il delicato ruolo di Prefetto della Sacra Congregazione per la dottrina della fede. Il vescovo di Monaco era un affermato teologo, famoso soprattutto per un’opera, la fortunata “Einführung in das Christentum” (“Introduzione al cristianesimo”), uscita nel 1968, tradotta in numerose lingue e costantemente ristampata (la pubblica Queriniana). L’itinerario teologico di Ratzinger ha rappresentato, anche nei tratti biografici, una via alternativa in risposta alla crisi nella quale era caduta la Chiesa (e la teologia cattolica) dopo il Concilio Vaticano II.

Ratzinger nel 1964 aveva partecipato, nell’euforia conciliare, alla fondazione della rivista di punta della “nuova teologia”, “Concilium”, in compagnia di quello che sarebbe diventato un suo irriducibile avversario, Hans Küng. Ratzinger, però, si era rapidamente staccato dal progressismo della “nuova teologia”, fondando insieme a Hans Urs von Balthasar e Walter Kasper la rivista “Communio”, nata proprio per porre un argine teologico agli estremismi conciliari a aprire una franca ed aperta discussione sulla corretta interpretazione dottrinale e storica del Concilio Vaticano II. La crisi per Ratzinger è stata determinata da una corrente teologica cattolica andata ben oltre l’oggettiva interpretazione dei documenti conciliari. Gli innovatori hanno imposto una lettura del Concilio come rottura, anno zero nella storia della Chiesa, inserendola in una prospettiva di liberazione dal passato.

A partire dai primi anni Sessanta il clima culturale è stato segnato dall’alleanza tra marxisti, neo-illuministi e cattolici modernisti. Da questo composito magma è scaturito un giudizio comune, teso a dividere la realtà storica tra “progressisti” e “reazionari”. La vecchia Chiesa della Tradizione doveva spirare per eutanasia, e ai modernisti era assegnata la determinante funzione rigeneratrice. La “rivoluzione”, dunque, trovava nello schema conciliare di rottura e ricominciamento, per i modernisti cattolici, il solo modo per arrivare alla rigenerazione della Chiesa. E a tale lettura la cultura marxista e radicale offriva docile sponda e costante appoggio. Pertanto l’avventura della “teologia della liberazione” è stata forse il vero frutto conciliare, la vittoria della prassi, del politico, della realtà su ogni altro aspetto. Potrà apparire strano a rileggerlo oggi, ma  persino Gianni Baget Bozzo, allora infervorato dalla “teologia della liberazione”, su “la Repubblica” polemizzava duramente con i rilievi teologici di Ratzinger (“Che triste tramonto, cardinale Ratzinger”, 10 novembre 1984).

A Tubinga, durante il Sessantotto, il giovane professore Ratzinger aveva potuto constatare di persona come le facoltà di teologia corressero il rischio di trasformarsi in centrali di deforestazione della memoria cristiana. Preso atto di questo clima Ratzinger si è incamminato in un lungo e difficile percorso di chiarificazione, che lo ha condotto sino alla massima guida della Chiesa, non creando nessuna scuola, ma prospettando una riflessione originale autonoma.

All’interno della teologia cattolica novecentesca, il pensiero di Joseph Ratzinger si è posto sulla scia di quello di Hans Urs von Balthasar, rivendicando la “in-comparabilità” della Rivelazione cristiana rispetto a qualsiasi filosofia, ermeneutica o sapienza umana. Da questa prospettiva ampie sono le concordanze con un filone teologico americano, in ambito  protestante: la “teologia postliberale” (liberale è da intendersi nel significato americano della parola “liberal”, equivalente di progressismo e modernità,  e quindi non ha nulla a che vedere con il significato del termine  comunemente utilizzato in Europa).  A far da apripista è stato il lavoro di Hans Frei, che ha individuato nella moderna ermeneutica la fonte primaria della perdita del realismo narrativo biblico. Frei ha descritto come dall’antichità al XVIII secolo la Bibbia sia stata letta per interpretare la vita, il mondo e la storia stessa.

Con l’Illuminismo abbiamo una frattura, e si verifica uno spostamento della lettura della Bibbia dalle intenzioni del testo alle intenzioni dell’interprete, impegnato a dimostrare non cosa intende dire il testo biblico, ma ad evidenziare i fatti realmente sottesi alla narrazione. Partendo da queste premesse la “teologia postliberale” ha cercato di contrastare la grande fiducia nella ragione e nelle esperienze personali di molti aspetti del pensiero teologico contemporaneo, infondendo un rinnovato vigore, appunto,  all’identità cristiana e alla Rivelazione. Dunque, alla luce di tutto ciò, Ratzinger non esiste nella teologia cattolica del Novecento? Urge un rapido aggiornamento del dizionario curato da Alberto Melloni.