Memoria e giudizio di chi al Sessantotto non ha mai creduto

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Memoria e giudizio di chi al Sessantotto non ha mai creduto

Memoria e giudizio di chi al Sessantotto non ha mai creduto

23 Dicembre 2007

Chiedo perdono per un
esordio autobiografico, singolare solo nel provenire da un coetaneo (o quasi,
sono nato nel 1941) dei giovani del Sessantotto, un quasi coetaneo non
protagonista anzi renitente. Risulterà chiaro e consolante per molti che, da
questa posizione, del Sessantotto “non ho capito niente” né potevo.

La mia memoria del Sessantotto
è occupata da alcune immagini, o forse sequenze, con Bologna sullo sfondo e,
dall’autunno, Firenze.  Mi  vedo a Bologna in una manifestazione di
studenti e sindacalisti davanti ad una fabbrichetta di periferia ”occupata”; o
in visita ad un giovane leader (poi stimato notaio), quasi un guru a
disposizione dei “compagni”: la casa aperta, un va e vieni. Ho memoria dell’eco
degli scontri di Valle Giulia (un amico sconvolto che telefona da Roma); e di
chiacchiere di amici di amici su tecniche di scontro con la polizia. Al centro
dell’anno la contraddizione di Praga.

Lontana, prima del rientro a
Firenze (settembre) e comunque già entro una costellazione di eventi analoghi,
l’effervescenza nel mondo cattolico, l’occupazione della Cattedrale di Parma. A
Firenze l’Isolotto, e il conflitto interno alla chiesa fiorentina che si
trascina da gennaio.  Considerai “arretrate”  quelle forme di trascrizione ecclesiale del
conflitto di classe; in una tavola rotonda redazionale, pubblicata sulla
rivista  “Testimonianze” (L’Isolotto: problemi aperti, dicembre
1968), dico, diversamente da Balducci e dagli altri, la mia convinzione dell’inconsistenza
religiosa delle  scelte di don Mazzi e
dei suoi (di quel gruppo, come di quasi tutto il rivoluzionarismo cristiano di
allora, solo uno sparuto resto è rimasto credente). Qualcuno si scandalizzò. Ma
conservo gelosamente questo documento di una preveggenza,  non proprio corrente in quegli anni. In
quella occasione Bologna, ossia l’austerità della mia formazione presso il
dossettiano Centro di Documentazione, mi aiuta nella lettura dei fatti, contro
Firenze.

Ricordo un breve scambio di
battute, forse nel settembre 1968, con Eugenio Garin; sento ancora il Maestro
che oppone (in poche parole, con Hegel) ad una mia facile affermazione sui
“mutamenti radicali” in corso, la superiore ragione, la serietà,  delle oggettivazioni (tutt’altro dal
“pratico-inerte”!) di fronte ad ogni arrogante politica del soggetto; lezione
che non dimenticherò. La lettura di Raymond Aron, La révolution introuvable (su L’Express
di settembre, poi trasformato in volume, sempre del 1968) è la mia salvezza.
Capisco che quella “rivoluzione” è (e resterà) solo un delirio. Il Sessantotto
è il sogno di una rivoluzione, Sartre esibito (ubriaco) per le strade Bologna.
Ovvero: se questo è “rivoluzione”, il
Sessantotto fu rivoluzione; ma voleva essere questo? Le rivoluzioni sono, poi,
più serie e più tragiche nel loro lascito.

Ho un ricordo  nitido del mio rifiuto, l’anno precedente,
verso la Lettera ad una professoressa;
trovato in libreria fresco di stampa, scorso e richiuso (letto più tardi).
Quelle pagine ingenuamente demagogiche mi erano parse manierate, illeggibili;
la loro recezione fu un precoce sintomo dell’epidemia che stava investendo l’intelligencija. Ho da qualche parte un
ritaglio dell’Espresso in cui si dava
la mappa dei libretti ispiratori del “movimento”, tanto più risibile allora, ai
miei occhi, per il fatto di mescolare prescrittivamente le pagine di Barbiana a
Marcuse, ai classici marxisti, al Libretto
di Mao, e di non preoccuparsi che questo miscuglio avesse senso per qualcuno.
D’altronde avevo scarsa stima per i più giovani (i sessantottini) e per il loro
dilettantismo “situazionista”, non meno che per l’agguerrito ideologismo di
qualcuno, rivolto all’inesistente prima ancora che all’impossibile. In questo
mi aiutava la lunga frequentazione della “serietà” comunista, rappresentata da
alcuni maestri dell’Università, dai loro allievi. Voto e voterò ancora per il
PCI, fino al 1979.  

Poi un altro lungo, difficile,
anno (1969), fino al lavoro presso l’Editore Vallecchi per varare la grande Enciclopedia delle religioni di Di Nola;
debbo a Mario Gozzini quell’uscita dalla precarietà. Sprazzi di radicalismi
politici ed ecclesiologici, anche in me. Conserverò anch’io negli anni troppa
disponibilità a subire l’aggressività ideologica, e troppa difficoltà a
prenderne esplicitamente le distanze. Gli altri che ancora oggi mi ricordano
“molto a sinistra” in quegli anni, mi avvisano di quella prolungata debolezza.
Ma un solo inverno con l’eskimo. 

Inseparabile dal Sessantotto
(davvero “non ancora viziato dalle ideologie?”) il clima degli “anni di
piombo”. La mia memoria degli eventi di quella lugubre stagione è smorzata
dall’impegno di studio e di insegnamento universitario su terreni nuovi e
liberi (tra Lettere e Magistero, tra Storia della chiesa e Sociologia). Mi
ricordo, vorrei dire “mi sento”, maturare una resistenza, sempre più tenace ed
esplicita, al clima tra eccitato e intimorito, grottesco e infantile, dominante
nel paese, nella Chiesa stessa, tra tragedia e tragedia.

Nessuna simpatia né per Lotta
continua né per l’Orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni.  Né “comprensione” poi per il terrorismo
brigatista (neppure per il primo, così romantico!). Non lacrime per Mara
Cagol, la cui morte commosse un po’ anche i moderati.  (Singolare –al di là del caso estremo del brigatismo-
che molti genitori di allora abbiano continuato a pensare i loro figli, revoltés e magari casseurs, come “nôtre merveilleuse jeunesse”, i nostri splendidi
ragazzi, per estendere l’ironia di Aron all’Italia.  Quando si è così ciechi si merita ciò che
accade.)

Lettore del Corriere, sarò concorde sempre con Leo
Valiani. Ero e resto silenziosamente dalla parte degli americani in Vietnam, ed
estimatore di Henry Kissinger. Dopo il 68 abbandono il diffuso filoarabismo; mi
sentirò spesso ferito dall’autolesionismo ideologico degli amici della jewish left fiorentina, come la
chiamavamo.

Nessuna simpatia, mai, per il
clima ideologico-morale del genere “strage di stato”, “mai più senza fucile” e
simili. Eppure, nonostante questo, ho amato Dario Fo per qualche anno.

Neppure per il liberazionismo
teologico, i Cristiani per il socialismo, le Comunità di base, fronti diversi
ma complementari di una medesima cecità delle nostre anime.  Non approverò mai il Balducci che pronostica
la fine della teologia e del clero: era d’altronde cara al “dissenso cattolico”
la prognosi della imminente fine della Chiesa – da supporre assorbita dalla
lotta dei Poveri ed inverata nella storia dell’Uomo nuovo. Né Enrico Chiavacci
che declama ad un gremito Convegno di “Testimonianze”, tra gli applausi: “Ci
dicono: ma loro (i Russi) hanno la bomba (atomica)! Che l’abbiano; a noi che
importa!”. Confesso, in questo quadro, anche un inalterato, e molto cattolico,
disgusto per l’incontrollato verbiage,
l’astuta farneticazione di Pannella, vero maestro e primo scalino dello
scadimento dell’argomentazione pubblica in Italia.

Probabilmente debbo ai miei
Maestri laici, oltre che ad un grande direttore spirituale, un sicuro
discernimento per gli enunciati inconsulti.

La distanza dal crescente pacifismo
e dal terzaforzismo della Testimonianze degli
anni Settanta (a scapito dell’originario, e colto, esercizio di riflessione
religiosa; della rivista fiorentina ero stato redattore dal 1961), non mi
impedisce di approvare fino al 1978 la sua vicinanza al PCI attraverso il  gruppo misto al Senato: quello che definii il
nostro “collateralismo” al Partito Comunista, senza imbarazzo, parlando con un
amico. Ma ricordo estinta in me ogni residua simpatia cattolico-progressista
per il mondo socialista (reale) dopo il primo viaggio in Polonia (1976) che mi
darà anche la chiave per intravedere la portata del pontificato di Karol
Wojtyła e con Lui di un nuovo (anzi: di un riconquistato) stile cristiano.

Le ultime occupazioni di
Magistero (1976/77) lasciano un segno definitivo e  radicalmente negativo: sono nei miei primi
anni di insegnamento e non sopporto gli studenti (onesti ragazzi e adulti) che
straparlano vulgate ideologiche. Ma le due o tre “occupazioni” della Facoltà di
Lettere nei primi anni Sessanta, in ben altro clima, in giacca e cravatta, cui
avevo partecipato avevano già tutto il sapore della vacuità politica!

Le occupazioni degli anni
Settanta sono terreni di semina per il terrorismo. Sarò (e resto oggi, senza
resipiscenze) contrario al negoziato con le BR nella vicenda Moro.

Ora, questo mio moderatismo,
questo dosaggio – gravato di letture “marxiste”, teoriche e filologiche, ma
protetto da storiografia e filosofia, dalla forza delle scienze religiose e
teologiche, insomma da formazioni classiche, tutte insieme molto resistenti se
non irriducibili all’ideologico-, potrebbero essere giudicati (da me stesso,
anzitutto) un saggio attraversamento tra Scilla e Cariddi, una buona emulazione
dell’Odisseo che ascolta le sirene, ma legato, per non nuocere a sé e agli
altri.  Ma non è così.

Proprio di fronte a queste
difese la cifra del Sessantotto dell’intelletto (un decennio che si prolunga in
un altro, tra stanchezze e tragedie residuali, fino ai secondi anni Ottanta,
quando la letteratura “rivoluzionaria”, politica e religiosa, scomparirà del
tutto, dalle librerie se non dalle teste) mostra tutto il suo peso. Lo mostra
nella moltiplicazione stessa delle sue versioni moderate, insidiose perché
mitridatizzanti, che generarono assuefazione negli habitués ma lasciarono molti altri indifesi.

Il Sessantotto opera, dunque,
anche sulle menti di quanti non “vissero” quell’anno (o quello stretto giro di
anni: 1968-1971); opera su ben altra lunghezza d’onda da quella
dell’effervescenza generazionale, dell’emancipazione sessuale, dell’esperienza
estatica del disordine e trascendimento sociale e  psichico – che non sono mai state mie
dimensioni, neppure tentazioni. È altro dal pur traumatico tutoiement e dalla familialité
inauthentique des saturnales
  (sono
vive formule di Aron) che si realizza nel Maggio
universitario tra studenti e professori. 

Suggerisco una
chiave, ovvero una stilizzazione, di
ciò che costituisce il Sessantotto nella durata. La durata, dal pre-Sessantotto
agli anni Settanta/Ottanta, è segnata  dalla
ermeneutica della Transizione, o se si preferisce della Crisi. Ma quale
crisi? 

Mi aiuta un
mirabile passo di Reinhardt Kosellek:
“È proprio della natura di una crisi che 
[in un momento storico dato] venga a scadenza una decisione; venga a sca­denza
ma non sia scaduta. Ed è proprio della crisi [di conseguenza] che resti
questione aperta proprio quale sia la decisione che viene a scadenza ”.  Qualcosa viene dunque a scadenza, ma non
sappiamo cosa; si badi: sappiamo che è ora, o è imminente, ma non conosciamo su
quale terreno non avremo più credito, per dire così. Non si tratta di una
irrisolta scelta sulla decisione: non sta in noi sce­gliere, e non sappiamo
cosa è stato scelto per noi. Per questo nelle crisi, finché sono tali, sussiste
il dubbio diagnostico e pratico, anche se le crisi suscitano quantità di
diagnosi. Prosegue Koselleck :“L’ incertezza generale di una situa­zione
critica (=di crisi) è dunque compenetrata da una certezza che -senza che si
possa precisare come e quando- la fine della condizione critica è imminente. La
soluzione possibile resta incerta, ma la fine [della crisi] come tale è assicurata
agli uomini: un capovolgimenti dei rapporti esistenti (minaccioso e temuto o
invocato con lieta speran­za). La crisi [però] respinge da sé/esorcizza il
problema del futuro storico”, ovvero di ciò che storicamente sarà.  Non, dunque, di questa modalità di Crisi, non veramente della Crisi, si alimenta il Sessantotto, ma di certezza di
soluzioni nella durata rivelatrice della situazione critica.

Nella prima pagina dei volumi
della collana Saggi/per una conoscenza
della transizione
, della Jaca Book, si legge:
“La transizione di una società è quel momento o quel lunghissimo periodo in cui
si possono vedere alla luce del sole le ideologie che conservano le strutture
(amministrative, economiche, educative e religiose) precedenti; si possono
soffocare le esperienze di liberazione (culture) che informano, nonostante le
incoerenze, le strutture precedenti; si può sprigionare un’esperienza culturale
(rivoluzione culturale) che informi nuove strutture; si possono sperimentare
nuove strutture in atto e il progetto verso cui si muovono. Ma la transizione
può essere una mistificazione, la rivoluzione culturale una ideologia, la nuova
struttura un cambio di guardia. Chi può giudicarlo? Solo chi vive un’esperienza
rivoluzionaria, di liberazione e non di strumentalizzazione (in qualsiasi
condizione storica si trovi), può giudicare la storia”.

Un commento adeguato di questo
testo, in fondo “moderato” (un esergo, da editore a lettore), si svolgerebbe
per pagine e pagine. Vi è una condizione del Tempo storico che rivela il
momento del Negativo, e in esso i suoi antagonisti (culture contro strutture);
il Nuovo strutturale in formazione/progetto. Vi è consapevolezza “critica”
(diremmo “antidogmatica”, “anti-ideologica”) che ciò che appare e si coglie
nella transizione può essere “mistificazione”. Vi è una risposta al: quis iudicabit? Solo chi vive
un’esperienza rivoluzionaria può discernere: 
formula ambigua, comunque fortemente polisemica, sulle pagine di un
editore nato dal ceppo di Comunione e Liberazione. L’esperienza cristiana in sé
può essere definita costitutivamente rivoluzionaria, in accezione abissalmente
distante dalla semantica politica occidentale e dall’ossessione simbolica  (nel senso di Voegelin: il simbolo illumina
la Verità che il gruppo rappresenta;
la Rivoluzione è il senso e il fondamento del gruppo) di quegli anni. Ma
difficilmente si può pensare che non venisse disambiguata, in esergo alle opere
di un giovane marxista, ideologo (e critico) 
del Movimento studentesco tedesco.

È il mito e l’orizzonte della
“Transizione” che mette a nudo le strutture della concentrazione del
“capitalismo maturo”; in effetti, in quanto la verità delle Strutture è messa a
nudo si ha Transizione.  La Transizione
vede la distruzione degli oppositori ‘culturali’ (sono gli anni della scienza
delle classi subalterne e delle minoranze oppresse, le “lingue tagliate”), come
l’emergere di novità “culturali”: la Cina del “lavoro liberato” dalla Parola
rivoluzionaria (come non pensare, per
incidens
, all’intima matrice del radicalismo protestante, “puritano”, nella
Rivoluzione culturale, nel Maoismo?). 

La Transizione ha attori e
segni ambigui (questo contro le ortodossie marxiste). Il “rivoluzionario”,
comunque costituito purché immesso nella prassi, ne possiede la chiave
ermeneutica. Il “rivoluzionario” riesce persino a sostenere, in qualche piccola
misura, la contraddizione della Primavera di Praga difficile ad accettarsi
nella cultura dei partiti comunisti europei. Krahl aveva scritto poco dopo,
sempre nel 1968, che la “riforma [non quindi la controrivoluzione, non fascismo]
post-stalinistica della Cecoslovacchia [di Dubček e di Šik] ha rappresentato
una traduzione astorica di quel nuovo
principio storico, ancora immaturo e mutilato in senso statalista [nei paesi
del “socialismo reale” pdm], che è il
modo socialista di produzione: [ha cioè rappresentato solamente] la sua traduzione
nella vecchia a e morta sostanza delle forme di relazione borghesi” .

Non sfugge al rivoluzionario
“l’interesse emancipativo della ragione, proprio del movimento riformatore”, ma
egli ne riconosce anche la mistificazione: il movimento di Praga “si vestì dei
consunti panni del mondo concettuale dello stato di diritto liberale, da tempo
pietrificato”.

Questo come tanti altri passi
di Krahl, tutt’altro che sofisticato, 
valgono proprio per questo loro sapore di vulgata a costruire una
tipologia di ciò che conta e dura nella sindrome del Sessantotto e lo sottrae
alla momentaneità, e al merveilleux,
dell’effervescenza. Una macchina logico-ideologica, elementare anche se
declinabile all’infinito nel suo verbiage
tra “scientifico” e mobilitante (e tra etico e mistico), con insuperabili
vincoli di accesso al presente. D’altronde il presente è  già in sé e per sé trasparente (sempre già
noto), entro una Storia decisa. Troppo agevole è per Krahl la distinzione tra ciò
che è “storico” e ciò che è “astorico”. Un gioco preparato da lungo tempo negli
storicismi progressisti, senza prevederne gli usi catastrofici; la mia
generazione era molto esperta nelle sue regole.

Solo negli anni Ottanta vedremo
dissolversi nell’intelligencija
questa macchina rivelatrice delle mistificazioni e delle pietrificazioni,
dell’orizzonte di alienazione e infamia (il “fascismo” come categoria) operante
sulle piccole come le grandi cose, sulle universali come sulle personali. Una
nevrosi gnostica che insidia il ”rivoluzionario”, il quale resta rivoluzionario
se e in quanto discerne (e combatte)
le mistificazioni nel Mondo, anzi la
mistificazione del Mondo.

3. Non è secondario, come
sembra invece dalla maggior parte delle ricostruzioni, che questa nevrosi
gnostica sia stata partecipata dai cristiani (e da intelligenze di primo piano,
molto oltre i confini della  pattuglia
dei teologi della liberazione) delle diverse chiese.  In un testo del 1969 Liberté, libérale ou libertarie? Raymond Aron aveva dato, ancora in anticipo,
un’ennesima conferma della sua penetrazione di giudizio. “La contestazione
all’interno della Chiesa cattolica ha una portata storica che nessuno può
[oggi] misurare esattamente. Essa comporta un aspetto che si può battezzare secolarizzazione”. La breve nota a “portata
storica” è importante: “Tra tutte le contestazioni è la sola a sembrarmi un
evento, forse di prima grandezza, della storia universale”, in virtù (spiegava
il testo) della orizzontalizzazione progressista della divinità di Cristo e
dell’immortalità dell’anima, che appariva a Aron di portata eversiva per il
Cristianesimo, quindi per la Weltgeschichte.  Lo scienziato politico metteva in evidenza i
teologi della rivoluzione, che chiamava théologiens
de la violence
, prossimi agli anabattisti storici, ma ancor più da
classificare come affini ai contemporanei “anabattisti della società del
benessere”: infatti  “gli uni e gli altri vituperano la
società detta consumistica, ora perché nutre i corpi e non le anime, ora perché
sfrutta i paesi detti sottosviluppati ecc.; gli uni e gli altri contano meno su
controversie ragionevoli che su gesti simbolici, meno sulle leggi che sulla
testimonianza, meno sulla buona volontà degli altri che sulla efficacia del
rifiuto (…). Molti cattolici progressisti hanno sentito gli eventi del Maggio
come una epifania. (…) Gesto rivoluzionario e coscienza di libertà: il legame
tra questi due termini risulta evidente quanto indistruttibile agli occhi dei
critici della società che assimilano l’ordine liberale all’asservimento”.

Una sindrome epifanica
investirà, in effetti, persino Karl Rahner, come avvenne per molti altri
intellettuali non più giovani. Nel 1972 Rahner si chiedeva, in piena conformità
al clima diffuso, tra liberazione, spiritualismo e mistica: “Dove [nella Chiesa
“ufficiale”] si parla dei “comandamenti” di Dio non come di un dovere da
adempiere faticosamente, bensì come della meravigliosa
liberazione
da una paura
schiavizzante
nei confronti della vita e da un egoismo frustrante? […] Dove
esistono ancora i “padri spirituali”, i “guru” 
(!) cristiani che possiedono il carisma dell’iniziazione alla
meditazione ecc.?”.  La capacità critica del più giovane Joseph
Ratzinger porterà i due teologi molto lontano l’uno dall’altro.

Trovo la le mie carte la
fotocopia (1975 ?) di un saggio dattiloscritto di Giulio Girardi, Foi chrétienne et matérialisme historique,
che riprende la sua copiosa produzione 1973/1974. Altro e più radicale registro
da Rahner, più radicale l’abbandono teologico alla Verità umana che si sta rivelando. “Il conflitto tra verità
cristiana e verità umana oppone la fede all’autenticità.
In queste condizioni difendere la verità crsitiana spese della verità umana è
realizzare una rottura tra conscio e inconscio (!), un falso interiore. Ora,
una situazione del genere non può che ripercuotersi sulla qualità stessa del
cristianesimo (…). Tutto ciò che non resiste alla prova della verità umana non viene dal vero Dio” (traduco da
p.25).

4. Aldo Cazzullo ha scritto che
Piazza Fontana (12 dicembre 1969) rappresenta la “perdita dell’innocenza” del
Movimento. “La rivolta generazionale e antiautoritaria del Sessantotto muta
nella mimesi della Guerra Civile”. Ma, se, dopo quella soglia, “l’ansia vitale
del Sessantotto è destinata a degenerare talvolta nelle forme cupe del confronto
ideologico, della ginnastica militare, della repressione e della rappresaglia
(…), l’inizio del decennio è ancora segnato dalla partecipazione, dalla
politica di strada e di piazza”.  Ma esiste la “via spontanea alla
Rivoluzione”? Ovvero, quanto rappresenta realmente del Sessantotto?

In tutto la via spontanea appare tanto
simbolicamente strutturata quanto  una
realtà essenzialmente congiunturale, non un’essenza tradita.  La tendenza delle storiografie (o piuttosto
autobiografie retrospettive) a delimitare 
l’autentico Sessantotto ad uno
stretto giro di mesi, se non di settimane, una “epifania” appunto, è in
evidente contrasto con la lunga durata della sindrome “rivoluzionaria” (nel
senso stilizzato attraverso Krahl).

La pretesa frattura appare
piuttosto una strategia di immunizzazione del momento entusiastico e
carismatico, “autentico” per sé, 
intangibilmente.

Vi è un Sessantotto, dirò il
suo Spirito, risultato di una lunga preparazione, inseparabile dal terreno
ideologico da cui il Sessantotto-effervescenza trae le parole  per dirsi, e dalle conseguenze di quella
determinazione (e matrice) discorsiva e performativa. che si concreta in outillage mental duraturo, resistente al
mutare delle pratiche e delle generazioni. Lo sa chi per smontare pezzo dopo pezzo
questa gabbia d’acciaio ha impiegato magari vent’anni.  Il protagonista tende a non ricordare la
profonda continuità con gli anni che precedono. Il Sessantotto era stato
preparato anche da coloro che a sinistra lo avversarono; porta alle sue
conseguenze una lunga gestazione eversiva operante (seppure mischiata o
mascherata) nelle molte culture della sinistra. Se, con un esperimento mentale,
si isolano le effervescenze improvvise e di costume dallo sfondo plumbeo,
diffuso, anch’esso costitutivo del Sessantotto, anzi suo cemento, appare la
continuità, come una lenta
corruzione dell’intelletto politico che percorre gli anni Sessanta. 

La stessa cultura comunista gli
opporrà la sapienza, la razionalità, di scelte politiche pubbliche responsabili
(dei suoi quadri migliori), ma non ragioni culturali; in effetti una parte dei
quadri e degli intellettuali del PCI è col Sessantotto e ancora di più con i
suoi prolungamenti; si troverà più tardi ad essere “né con lo Stato né con le
Brigate Rosse”.

5. Il Sessantotto nella sua
genesi come nelle sue repliche e filiazioni è una metamorfosi (o una
degenerazione o una pseudomorfosi?) di fronti della cultura comunista e
socialista, come delle culture laico-progressiste in genere, e della cultura
intellettuale (progressista, “critica”) delle chiese cristiane, improvvisamente
comunicanti nel postconcilio. Una metamorfosi in intelligencija irresponsabile.

Amo l’ingegnosa categoria di sociétés de pensée proposta un secolo fa
da Augustin Cochin, sotto la duplice esperienza della ricerca storiografica e
dell’osservazione dell’intelligencija a
lui contemporanea: “le sociétés
[de pensée] creano una République ideale ai margini della vera,
un piccolo stato ad immagine del grande, con l’unica differenza che non essa è
reale. Le decisioni prese sono solo auspici [voeux], e (dato fondamentale) 
i suoi membri non hanno personale interesse né responsabilità riguardo
alle  questioni [affaires] di cui parlano”. L’amico De Meaux, cui dobbiamo la
cura dell’eredità di Cochin tra le due guerre, glossava: “Realizzazione di
una società irreale, costruita sulla carta da irresponsabili, questo è lo stile
di lavoro nelle sociétés de pensée“.
S’intende, nella vicenda rivoluzionaria si passerà dalle armi della critica
alla critica delle armi, ma secondo Cochin lo stile deliberativo che è già
operante nel 1785 resta in quello delle sociétés
al potere del 1794.

La molla e lo stile
congiunturale (nel Sessantotto breve, “epifanico”) del collasso in intelligencija irresponsabile delle
culture etiche e politiche ricostruite nel doipoguerra possono essere cercati
nel conflitto intergenerazionale, che si individua bene nelle famiglie come nei
partiti (o contesti associativi) e nelle università. La molla conflittuale
intergenerazionale è latente nelle istituzioni, ma è tenuta bloccata dalla
(interna) necessità istituzionale, che include anche o dalla conflittualità
esterna. Osserva Paul Berman: “Nel mondo esistevano innegabili motivi di
tensione. Guerra in Vietnam e rivoluzioni anticoloniali, riforme teologiche in
seno alla Chiesa cattolica, avvento degli hippy, nuove forme di musica pop,
movimento per i diritti civili e rivolte razziali negli Stati Uniti, qualche
indizio rivelatore di scontento nell’impero sovietico (…). Resta però difficile
individuare che cosa trasformò l’eccitazione in ribellione, o quale sia
stata  la causa del diffondersi della
ribellione a livello mondiale”.

Il passaggio individuale alla ribellione (là dove questo accade)  trova alimento nella possibilità riflessiva
di imputare alla generazione adulta (non solo nei suoi quadri più
disciplinanti) limiti ed errori etici e storici gravi. Basterà a legittimare
esistenzialmente, quanto librescamente, lo scatto della molla, ovunque; le
giovani generazioni, per definizione irresponsabili,  della fine anni Sessanta assumono, così,
improvvisamente quanto precariamente il controllo se non delle istituzioni
almeno delle produzioni ideologiche. E ne restano imprigionate, trasmettendo
questa gabbia alle successive, con la mediazione dei Philosophes via via in opera.

Il Sessantotto è, per questo,
una contraddittoria complexio,
moralistica ma leninista (ovvero assolutamente cinica), pessimistica ma
utopizzante, libertaria eppure elettivamente totalitaria, materialista e
religiosa anzi “mistica”, individualistica ma plasmata anzitutto da guide
carismatiche, verbosa e raziocinante ma “spontaneista”. 

Della generalizzazione e
proliferazione di una intelligencija
irresponsabile
(che con Carl Schmitt si potrebbe definire una rinascita di politische Romantik)  come cifra di un Sessantotto duraturo, è utile
prendere atto criticamente e storiograficamente. “Per la prima volta,
probabilmente, un filosofo scopre la dialettica nella solitudine”, ha scritto
Aron
del Sartre della Critique de la raison
dialectique
. Molte le citazioni di Sartre in appoggio, ad esempio:”l’azione
in corso di svolgimento dà a se stessa le proprie lumières (…). L’individuo
scopre la dialettica come trasparenza razionale in tanto in quanto la fa”.

L’epoca “dell’azione
collettiva”,
questo “nuovo spazio della politica”, questa “umanità intera come soggetto
storico e morale di riferimento, senza ulteriori specificazioni” (Revelli, che include in questo meraviglioso universalismo rivoluzionario
l’orrore della Rivoluzione culturale cinese e “l’ingresso delle ‘squadre di
controllo operaio’ nelle università”!) è in realtà  l’epoca, 
delirante anzitutto metafisicamente, del soggetto (senza mediazione ma
mascherato di Totalità), “al potere”.

Questo Sessantotto, delirio di una
politica dell’umanità “non come
astrazione ma come realtà in atto
(Revelli), è ancora tra noi, nel piagnisteo di questi mesi, aggravando la
presente difficoltà, anzi panico, di concepire la politica entro spazi e
vincoli di Realtà tout court.