Mercoledì si voterà la riforma del MES…
06 Dicembre 2020
Mercoledì si voterà in Parlamento la riforma del MES. Quel voto implica tre ordini di valutazioni tra loro connesse ma che vale la pena trattare separatamente, e non solo per una questione espositiva.
La prima valutazione, la più importante, è quella che riguarda il merito stesso della questione. Aspetto sul quale, proprio su questo giornale, ha scritto Paolo Romani facendo chiarezza nella fitta nebbia nella quale si muovono molti, anche fra gli stessi parlamentari. Dunque, qui possiamo limitarci all’essenziale. Il MES (“Meccanismo europeo di stabilità”) esiste da quasi dieci anni. L’Italia vi fa parte e per farvi parte ha fin qui impegnato molti miliardi, fra capitale versato e capitale sottoscritto. La riforma non implica nuove spese. E non pone nuove condizionalità. Fin dai tempi del governo “Conte uno” (del quale facevano parte M5S e Lega) è stata predisposta con lo scopo di rendere più difficile l’aggressione speculativa, soprattutto sul versante del credito, ai danni di Paesi in difficoltà. Insomma: si può essere d’accordo o meno sull’opportunità di ricorrere materialmente ai fondi del MES (problema di ordine differente che prima o poi a sua volta varrà la pena sviscerare), e si possono anche avanzare dubbi e proposte migliorative sull’efficacia della riforma nel perseguire l’obbiettivo dichiarato. Ma è veramente difficile ritenere che essa rappresenti un attentato alla sovranità degli Stati che già hanno sottoscritto il fondo.
Il secondo ordine di valutazione è prettamente politico. Il rapporto tra l’Italia e l’Europa non è più lo stesso. La pandemia, e soprattutto le sue conseguenze economiche, hanno cambiato le carte in tavola. Non che in era pre-Covid il nostro debito pubblico fosse qualcosa con cui scherzare. Ma è un fatto che oggi, anche grazie agli “scostamenti di bilancio” che in diversi casi sono stati votati dal Parlamento all’unanimità, il nostro debito sovrano è pari al 160 per cento del Pil. Il Paese, anche per questo, è molto più fragile ed esposto. E l’Europa, da parte sua, qualche sforzo lo ha compiuto. Il Recovery Fund – al netto dei veti di Ungheria e Polonia non privi di motivazioni e ragioni – rappresenta comunque una svolta e un’occasione. Nel senso che l’Unione, di fronte alla crisi, ha deciso di monetizzare il debito e almeno in parte, per la prima volta, lo ha mutualizzato. A riprova di tutto questo, in Italia nessuno sostiene che dei soldi del Recovery Fund si possa o si debba fare a meno.
Da ciò si evince che allo stato attuale nessuno che faccia politica nel nostro Paese, e che possegga una seppur minima dose di realismo e di cognizione dell’economia reale, dovrebbe anche solo immaginare di poter governare contro l’Europa. Ciò vale ovviamente per la maggioranza di oggi; ma vale a maggior ragione per chi aspiri a succedere a questa maggioranza. Contro l’Europa, forse, si possono anche vincere le elezioni. Altra cosa è riuscire a impostare un governo duraturo che, soprattutto, si faccia carico di risollevare il Paese in un tempo che si preannuncia come un vero e proprio dopoguerra.
Queste considerazioni, che sono addirittura banali, dovrebbero consigliare ad alcune forze dell’attuale opposizione di riconsiderare i termini del proprio “sovranismo”. Non si tratta di convertirsi all’europeismo. Né di negare che un problema di tutela della sovranità nazionale persista anche nel post-Covid. Si tratta, piuttosto, di declinare tale esigenza nel nuovo scenario che la crisi pandemica ha creato. E in questo nuovo scenario a me sembra che abbia davvero poco senso contribuire a isolare l’Italia nel contesto europeo opponendosi a una riforma tecnica che, in fin dei conti, mira a scoraggiare attacchi speculativi nei confronti dei più deboli. Ancor meno ha senso fare da sponda alla parte più demagogica, pauperista, populista e giustizialista dell’attuale maggioranza, coprendo i dissidi interni alla compagine che sostiene l’esecutivo e favorendo nei fatti un accordo al ribasso nel “Conte bis” il cui prezzo verrà pagato dall’Italia. Piuttosto, se si intende porre il tema della sovranità, invece di agitare lo spettro del MES sarebbe il caso di prestare più attenzione alla struttura della governance annunciata dal Presidente del Consiglio per la gestione del Recovery Fund: un nuovo organismo tecnocratico, guidato da una sorta di “governo ombra” interno al governo che ne blindi gli equilibri politici, senza alcun ruolo del Parlamento se non quello di essere di tanto in tanto destinatario di qualche comunicazione.
C’è, infine, un terzo aspetto che riguarda i rapporti interni alla coalizione di centrodestra. Quanto accaduto in questi giorni è con ogni evidenza la nuova puntata di uno scontro all’ultimo diktat tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Insomma, l’imposizione sul MES da parte del leader della Lega è stata la risposta alla “strambata” sullo scostamento di bilancio compiuta da Berlusconi una decina di giorni fa. Tutto questo ci preoccupa e, dal punto di vista di chi prova lealmente a ricostruire un’area al di fuori dei vecchi schemi partitici e dei meri interessi di partito per rafforzare il proprio schieramento, non piace. Si può certamente chiedere a una forza minore e nascente di mettere per una volta da parte le proprie convinzioni in nome della partecipazione a un progetto comune che mira a sconfiggere il governo di oggi per rendere più prossimo l’obbiettivo del governo di domani. Per far questo, però, è necessario dimostrare di voler essere una coalizione. Di avere, cioè, una volontà inclusiva. Di aprirsi al dibattito interno e di non voler tutto determinare sulla base dei soli rapporti di forza. E questo a maggior ragione se alla fine quei rapporti di forza si intende legittimamente farli valere. In politica, come insegna Machiavelli, ci sta.
Tutto ciò, invece, non c’è stato. E poiché le considerazioni fin qui esposte sono fin troppo ovvie e scontate, viene naturale pensare che esista un problema più serio. Nella politica italiana si è introdotta di soppiatto un’ulteriore frattura che taglia trasversalmente gli schieramenti e persino le forze politiche. Una frattura tra quanti da un lato pensano che, passata questa crisi, tutto tornerà come prima e un heri dicebamus consentirà di riannodare i fili con il passato come se nulla fosse successo e quanti, invece, ritengono che gli sconvolgimenti provocati dalla pandemia e dalle sue ricadute sociali siano così grandi che bisognerà cambiare molto nel nostro modo di pensare, di vivere, di immaginare i rapporti economici e, ancor più, la politica.
Questa frattura incide anche sul modo di fare opposizione a un governo evidentemente inadeguato. Chi pensa che non ci sia bisogno di mettere in discussione nulla per salvare l’Italia, ritiene anche che la coalizione di centrodestra debba restare quella che era: tre partiti legati da reciproca convenienza. Stop. Chi invece pensa che nulla sarà come prima, immagina le cose in modo un po’ più articolato. Ritiene, ad esempio, che esista un problema di espansione della coalizione. E, soprattutto, che non basti attendere inerti perché restando assisi in attesa sulla riva del fiume, prima di veder passare il cadavere dei nostri avversari si rischia di scorgere la salma del nostro Paese.