Meriti e limiti del pensiero di de Benoist, oltre il pregiudizio di destra e sinistra

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Meriti e limiti del pensiero di de Benoist, oltre il pregiudizio di destra e sinistra

09 Settembre 2012

I fondamenti filosofici e pragmatici dell’attuale liberaldemocrazia occidentale, e ancor di più la loro vulgata politica e giornalistica, hanno un fiero avversario, un prezioso critico nel saggista francese Alain de Benoist. Nome sconosciuto al grande pubblico italiano, famigerato per alcuni pigri intellettuali di sinistra, anche d’oltralpe, che non gli perdonano il passato schierato a destra. E infatti a casa nostra le sue opere da molti anni circolano grazie a quel pionieristico ambiente che negli anni Settanta chiamarono Nuova Destra: Marco Tarchi, Stenio Solinas, Gennaro Malgieri e compagni, (anzi camerati come si diceva allora), un manipolo di coraggiosi che tentarono di mandare in soffitta il fascismo retorico del Movimento sociale ancora dominato da Almirante.

Ma dai quei tempi sono successe molte cose, nella storia politica del mondo e nel pensiero di Alain de Benoist (e lo stesso discorso, con alcune sfumature, vale per Tarchi). Chi vuole entrare in quel pensiero, e la cosa è consigliata appunto a liberali e liberisti ben attrezzati per la sfida, fa bene a procurarsi due volumi editi dalle edizioni Controcorrente di Napoli: “Pensiero ribelle” è il titolo (già disturbante per un conservatore, che se vuole però conservare il conservabile deve abbandonare le comodità), mentre il sottotitolo ci spiega che si tratta di un’antologia di “interviste, testimonianze, spiegazioni al di là della Destra e della Sinistra”. Più di ottocento pagine che ripercorrono tutto l’itinerario intellettuale di de Benoist, dagli esordi nei tardi anni Sessanta con gli studi sulla civiltà indoeuropea alle odierne riflessioni sull’ecologia, la decrescita economica, la geopolitica. “Al di là della Destra e della Sinistra”, questo è proprio il punto, l’approdo: il superamento del dualismo ereditato dagli ultimi due secoli, quello fra reazione e rivoluzione. Con la sintesi di quanto c’è di buono e l’abbandono di tutta la zavorra inutile o peggio dannosa. 

In Alain de Benoist il lettore scopre un critico della politica estera atlantica che, a differenza di molti anti-americani per partito preso, non concede nulla alle teorie del complotto e alle semplificazioni brutali. A lui interessa piuttosto smontare il  trotzkismo (più o meno consapevole) dei neocon statunitensi, i meccanismi perversi del capitalismo finanziario globale e del fondamentalismo tipico dei protestanti evangelici (speculare all’estremismo islamico). Gli interessa il nostro continente, possiamo addirittura definirlo un vero patriota europeo, ma perché denuncia i residui di nazionalismo e lo strapotere delle tecnocrazia mentre propone un’Europa federalista che tuteli le piccole patrie e le tradizioni culturali. Tutta la destra razzista e xenofoba esce con le ossa rotte dalle prese di distanza di de Benoist, che però nemmeno risparmia l’ideologia del multikulti, la sua astrazione e la sua complicità col sistema di sradicamento emigratorio e confusione etnica. Se poi il pensatore francese non può dirsi liberale, siamo al cospetto di un vero democratico; purché la democrazia sia il più possibile “partecipativa”, in grado di coinvolgere il cittadino nelle scelte della comunità, e non rimanga una delega ad un burocratico sistema di rappresentanza ormai in bilico fra il mondo del gossip e i consigli d’amministrazione.

Ecco, si può essere “di destra” sulle questioni bioetiche e “di sinistra” in politica economica, ecologisti perché si è meditato a fondo sulle storture del nostro modello di sviluppo e non perché si dà fiducia agli allarmi di Al Gore. Si può confutare la filosofia liberale senza sventolare la bandiera di Marx o quella De Maistre.

E veniamo allora al limite, a quello che non ci convince in de Benoist, e che pregiudica la sua stessa critica all’”ideologia dei diritti dell’uomo”. Ed il limite è tutto nella sua comprensione superficiale del fenomeno cristiano, della differenza sostanziale fra il cristianesimo e tutte le altre religioni nate prima o dopo. In effetti, de Benoist nasce pensatore nietzschiano, anticristiano e pagano (non sul piano confessionale, non che si metta a pregare Giove, ma su quello filosofico). Ha ragione quando coglie il nesso e la continuità fra i monoteismi e il totalitalitarismo, ma sembra sempre sfuggirgli che il cristianesimo è qualcosa di più di una semplice religione del Dio unico; come minimo perché fondata sull’incarnazione e sulla mediazione della chiesa, dei santi, della coscienza di chi crede e vive in Cristo. È giusto combattere la deriva individualistica della società, ma nel nome della “persona” prima che in quello della comunità. Non siamo più antichi greci che esistono solo perché membri della polis e non dobbiamo arrenderci ad un destino tecnocratico da individui atomizzati in perenne competizione con i nostri simili per sfogare la nostra volontà di potenza e la nostra “metafisica delle soggettività”. Con la rivoluzione cristiana nasce proprio la “persona”, qualcosa di più dell’individuo astratto, qualcosa di altro dalla comunità. Dato che de Benoist ammette qualche interesse per autori cattolici come Péguy e Bernanos, per il personalismo filosofico e per la dottrina sociale della Chiesa, gradiremmo da parte sua sforzi di ulteriore riconoscimento dell’impulso cristico.

Ovvio che anche i cattolici e i cristiani abbiano da imparare qualcosa da de Benoist, Come minimo potrebbero prendere atto con lui che il loro credo è ormai percepito come “un’opinione”, con le stesso mordente, o meno, di tante altre in vendita sul mercato delle idee. Occorre forse invertire qualche marcia e rifarsi un po’ pagani, tornare a un viso sentimento della sacralità del mondo.