“Mi chiamo Gilad ed è incredibile che il mondo libero accetti il mio destino”
27 Giugno 2011
di Mario Rimini
Un filo rosso si dipana oggi tra Parigi e Gaza, tra le nostre periferie malate e le sabbie sinistre di un Medioriente avvelenato. Ha il colore del sangue, e l’odore di Auschwitz. Annoda i volti e le storie di giovani ragazzi, ebrei strappati alle loro vite occidentali e trasportati in un’orgia sadica di violenza medievale, tortura e assassinio. Sono i membri rubati e violati di una nuova ossessione degli ideologi di morte e dei profeti d’odio: l’ossessione per il corpo di Israele. Il corpo, quello fisico. La carne.
E’ una malattia paragonabile alla sete carnale di sangue e sofferenza che ha mosso schiere di famigerati serial killer – l’ossessione maniacale per la vittima, il piacere sadico del rapimento, della tortura, e infine dell’omicidio. E’ diventata ormai un elemento caratterizzante dell’islamismo totalitario che cresce e si diffonde nel vuoto lasciato da un Occidente arrendevole, prono al compromesso, che non vede, non capisce e non reagisce. L’Occidente sperduto e imbambolato su schemi mentali e teorie politiche desueti e sterili, incapaci di spiegare il presente e di distinguere il bene dal male, le vittime dai carnefici, i valori dai raggiri.
Eppure, si tratta qui di rituali di morte violenti e perversi, elevati a politica e a ideologia da un islamismo feroce e barbaro, spavaldo e subdolo. La sua cifra distintiva è diventata una fame primitiva di corpi ebrei e israeliani da catturare, tormentare e fare a pezzi – quella dei macellai di Hezbollah, dei sadici scagnozzi di Hamas. Ma anche di semplici ragazzi cresciuti nelle periferie multiculturali d’Europa. Come i giovani di Bagneux, bainlieu parigina.
Qui nel gennaio 2006 un giovane ebreo ventitreenne fu rapito e tenuto prigioniero in uno scantinato per 24 giorni. Ilan Halimi fu torturato senza sosta – tenuto nudo, legato, umiliato, picchiato, violentato, fatto a pezzi lentamente, ustionato con l’acido, pugnalato, infine ricoperto di liquido infiammabile e bruciato vivo, sgozzato e gettato in una stazione abbandonata. Quando fu trovato, secondo i referti medici, aveva ustioni da acido sull’80 percento del corpo, contusioni gravi, ossa spezzate, ematomi che coprivano tutto il corpo "tanto che era ovunque più blu che color carne", era senza un orecchio e un alluce, aveva multiple ferite da coltello e scarnificazioni, e i testicoli come "arance annerite".
Ilan morì delle sue ferite in ambulanza, dopo aver vagato sanguinante per oltre un’ora, in cerca di salvezza. I torturatori – almeno 26 giovani musulmani, assistiti dalla complicità e dal silenzio di un intero isolato – erano vicini di casa, ragazzi di quartiere. Giovani ubriachi di ideologia islamista e di odio anti ebraico. Durante quell’interminabile mese di abominio, alla crudeltà fisica avevano accompagnato – in un copione classico di psicopatologia criminale – la tortura mentale, telefonando alla famiglia di Ilan per chiedere riscatti impossibili e inutili, sullo sfondo straziante delle urla di dolore del ragazzo torturato, e di versetti del Corano.
Nelle stesse periferie parigine, un altro giovane ebreo, Sebastien Selam, fu assalito, picchiato, sgozzato, il viso mutilato e gli occhi strappati dalle orbite. L’omicida era il ragazzo musulmano vicino di casa, che dopo lo scempio esultò "ho ammazzato il mio ebreo, andrò in paradiso". E poi c’è Gilad. Contesto diverso e uguale rituale di sadismo, tormento e umiliazione. Un giovanissimo soldato d’Israele e per beffa del destino, anch’egli cittadino francese e anch’egli rapito nel 2006, cinque anni fa oggi, ma da scagnozzi di Hamas. Aveva diciannove anni.
Da oltre due anni ormai nessuno sa se è ancora vivo. La sua storia presenta gli stessi elementi di una stessa, perversa mente omicida – il sadismo con cui Hamas nega persino alla Croce Rossa di vederlo; l’eterno, finto ricatto con cui tormenta la famiglia e tiene sotto scacco l’intera Israele; il rituale del rapimento, della prigionia, della tortura psicologica e chissà forse anche fisica; l’ossessione dell’umiliazione; e la perversa soddisfazione dei carcerieri, con la complicità sociale che li circonda. Sono altrettante prove di un leitmotiv che accomuna Parigi e Gaza, la nostra esistenza contemporanea e il loro buio, pestilenziale Medioevo. Non si tratta di casi isolati e di schegge impazzite. Come nel puzzle più classico che ricompone la mente malata degli assassini seriali, la bramosia omicida per il corpo di Israele è invece una coerente aberrazione collettiva, ormai connaturata all’ideologia islamista. Una malattia insieme mentale, sociale e politica.
Quella qui sotto è una lettera soltanto immaginata. Perché Gilad da cinque anni non ha voce. E’ Gilad Shalit ma contiene anche Ilan Halimi e Sebastien Selam e Daniel Pearl e Ron Arad… Vittime del medesimo impulso sadico e omicida, divenuto ideologia. Parti spezzate e smembrate del corpo d’Israele.
Mi chiamo Gilad. Sono stato rapito dalla mia terra cinque anni fa. Mi hanno rapito perché sono ebreo e isaeliano. E’ quello che i miei rapitori odiavano di me. Ero un ragazzino di 19 anni quando mi hanno preso. Mi hanno tenuto in una cella, spesso nudo e privo di tutto. Ogni giorno della mia prigionia mi hanno picchiato, umiliato, torturato. I miei aguzzini ridevano del mio dolore. Godevano nel torturare il mio corpo e tormentare la mia mente. Non facevano che abbaiarmi contro che non avrei mai più visto casa. Mi dicevano anche che io ero soltanto l’inizio, che dopo aver ucciso me sarebbe toccato allla mia famiglia, ai miei amici, e poi avrebbero massacrato il mio popolo. Mi costringevano a lodare la loro religione e a deridere la mia, e la mia umiliazone li divertiva. Mi mostravano spesso dei filmati di mia madre e mio padre, della loro angoscia, e mi ripetevano che non li avrei mai più visti e che la loro agonia non sarebbe cessata.
Anche il mio corpo è stato spesso abusato, in modi che non posso descrivere. Di simili torture avevo soltanto letto nei libri, in passato. In Israele ci hanno insegnato degli Ebrei d’Europa, di quando dovettero patire a causa del nazismo e del fascismo. Ci hanno raccontato dei campi di concentramento, dell’estremo sadismo e del disprezzo inflitti alle nostre donne, ai bambini, agli uomini. Le immagini e le storie facevano crescere in me la rabbia per il dolore inflitto alla mia gente solo per il fatto di essere ciò che erano: ebrei. E anche perché chi aveva il potere di porvi fine non lo fece. Paesi che possedevano eserciti e carri armati e aerei avrebbero potuto aiutarci, ma non lo fecero. I nostri insegnanti ci hanno spiegato che sarebbe stato possibile bombadare Auschwitz e Treblinka e Buchenwald e interrompere il genocidio, ma nessuno lo fece. La mia gente era tenuta lì in schiavitù, strappata alla sua vita, torturata, violentata, asfissiata, bruciata, massacrata ogni giorno. E nessuno intervenne. Da bambino lessi i diari di una ragazzina di Amsterdam: si chiamava Anna. E provai di nuovo quella medesia rabbia. Morì in un posto chiamato Bergen Belsen, negli abissi dell’Europa nazista. Avrebbero potuto salvarla, ma nessuno intervenne. La rabbia che provai era anche vergogna. Mi vergognavo perché la mia gente accettò il massacro senza reagire né combattere.
Al contempo, però, sentivo anche un forte orgoglio. L’orgoglio di vivere in una terra mia, dove ci assicurarono che la storia non si sarebbe ripetuta. Ero orgoglioso di essere arruolato nell’esercito di Israele. Eravamo i guardiani della nostra dignità, del nostro futuro, testimoni del nostro passato tragico e garanzia che non sarebbe mai tornato. Lo dovevamo ad Anna. Lo dovevamo all’altro nostro popolo di 6 milioni di persone, distrutto da odio e sadismo. Da bambini, ci promisero che il passato non sarebbe tornato, perché eravamo diventati forti.
Eppure un giorno – un giorno qualunque della mia normalissima vita nella mia terra – mi ritrovai legato, privo dei sensi, cirondato da gente brutale che parlava una lingua straniera, una lingua che avevo sentito molte volte anche nel mio paese. Ero stato rapito e fatto ostaggio da un nemico che non conoscevo bene, ma che riconobbi in fretta – lo riconobbi da quello che ricordavo degli insegnamenti di bambino, quando crescendo nella terra degli ebrei mi insegnarono dell’odio e dello sterminio cui eravamo sopravvissuti. Questo nemico mi strappò alla mia famiglia e alla mia gente perchè sono ciò che sono, un ebreo e un israeliano. E in un istante mi resi conto che non solo il passato può tornare ma che io vi ero già immerso.
Ero diventato Anna. Ero diventato i bambini e le donne e gli uomini strappati dalle loro vite normali e torturati e assassinati perché qualcuno li odiava. Ero soltanto un adolescente e un giovane soldato quando mi rapirono. terrorizzato ma non disperato. Ero prigioniero, in catene, nudo e rinchiuso in un campo di concentramento tutto mio, ma non mi trovavo in Polonia, in Germania, in Austria negli anni della guerra. Ero a Gaza. Gaza è una piccola striscia di sabbia accanto al mio Paese. Letteralmente a pochi metri dalle nostre case, dalle nostre basi, dai nostri carri armati. Non ero solo. Non dovevo sperare che stranieri indifferenti mi salvassero con una missione che non avrebbero mai intrapreso. Non dovevo aspettare che l’America, la Francia o l’Inghilterra bombardassero la mia squallida baracca e mi liberassero. La mia gente era vicina. I miei aguzzini erano una cricca brutale, ma non erano certo la potente Wehrmacht scatenata contro un popolo indifeso. Io sono un soldato d’Israele.
Abbiamo vinto contro nemici ben più forti in infinite guerre, abbiamo sconfitto eserciti di carri armati, aerei e missili. Contro ogni probabilità abbiamo vinto. Io sapevo che avrebbero potuto uccidermi dopo un giorno, dopo una settimana. Ma sapevo anche che la mia gente mi stava cercando, forse erano già a Gaza. Ogni giorno io ero in attesa di sentire il rombo dei nosti aerei e della nostra artiglieria che sopraffaceva il nemico e m veniva a liberare. Cercando casa per casa, cortile per cortile. Mostrando al mondo che non ci sara’ mai un’altra Anna Frank, un’altra Auschwitz, un’altra vergogna. Il mio copo doleva ed io ero spaventato, ma non ero un povero ragazzo ebreo nella Polonia occupata dai nazisti. Io ero un soldato di uno degli eserciti più potenti al mondo.
Eppure i miei aguzzini ridevano di me. Mi ripetevano che la mia gente non mi avrebbe mai salvato. Ogni giorno mi urlavano di esser loro i più forti, minacciando di volerci massacrare come cani. Io non gli credevo. Come potevano sfidare un esercito come il mio? La mia gente non avrebbe permesso alla storia di ripetersi. Avrebbe mantenuto la promessa che gli ebrei non sarebbero stati torturati e assassinati di nuovo, per il solo motivo d’essere ebrei.
Tutti i giorni, nella mia cella di Gaza, pensai a quella ragazza di Amsterdam di nome Anna. Potevo comprenderne la solitudine, l’angoscia e la paura. Potevo sentire l’odore della sua baracca e provare il suo freddo. Potevo respirare il medesimo desiderio di libertà, la nostalgia di casa e degli amici, la brama della vecchia vita da cui era stata strappata. Nella mia cella di Gaza, io smisi di pensare agli ebrei d’Europa come a un passato doloroso e vergognoso e a un semplice capitolo di storia: io ero loro. Io ero i milioni di Anna e di Mosè che furono rapiti, picchiati, insultati, umiliati, torturati, affamati, terrorizzati e assassinati.
Con i giorni che passavano, però, la mia speranza iniziò a vacillare. Finché ebbi un’improvvisa e scioccante epifania: la gente – anche la mia gente – era cieca. Mi resi conto all’improvviso di essere l’unico in grado di vedere e capire cosa significasse quel passato. Incredulo, capii di essere l’unico capace di vedere il passato ripetersi già. Fu allora che tornarono rabbia e vergogna. La mia gente si stava sottomettendo un’altra volta allo sterminio senza combattere. Nonostante possedessimo abbastanza soldati, armi e munizioni per combattere e vincere, non combattevamo. I miei aguzzini lo sapevano, e ridevano di me e di Israele, eccitati e ubriacati dalla sensazione di potere e dall’odore della nostra debolezza. Ero nelle mani di bestie che banchettavano sulle nostre paure e godevano del nostro dolore, del nostro tormento, del nostro sangue. Del mio sangue. Ero legato e mi picchiavano e mi umiliavano ogni giorno. La mia gente era vinta e sconfitta, senza aver lottato. E loro ridevano.
Tutto ciò che dovevamo fare era usare la nostra forza. Abbiamo costruito un esercito con l’abnegazione di uomini e donne, e abbiamo le armi per difenderci; abbiamo giurato “mai più” un’infinità di volte; abbiamo sacrificato la gioventù e dato l’anima per diventare forti e non sentirci mai più indifesi. Adesso dovevamo semplicemente agire. Non perché la mia vita fosse così importante – ma soltanto perché questa volta tutti sapevano dove fosse Auschwitz. A fianco a noi, a Gaza. La mia cella era una baracca del campo. La mia uniforme da prigioniero indossata ogni giorno, per lunghi anni di agonia. Le mie sofferenze rinnovate con furia e godimento sadico dai miei aguzzini, il mio dolore deriso, musica e trastullo per le loro orecchie e i loro occhi.
Tutto ciò che dovevamo fare era combattere. Potevamo distruggere la bestia che ci stava dissanguando a morte, potevamo inseguirla e darle la caccia e ucciderla in poche ore. Invece scegliemmo ancora una volta di indossare la nostra uniforme a strisce, e le nostre stelle gialle. Una nazione di prigionieri, tenuta in ostaggio da una banda di assassini. Di nuovo schiavi in Egitto, e pecore al macello in Europa. La stessa rabbia, e la stessa vergogna. Non avevamo imparato. Tutti i nostri musei, i libri, i film e le lezioni sul male che ci piombò addosso spazzando via milioni dei nostri fratelli: tutto era all’improvviso una vistosa impotenza. Stanze vuote, piene di un’eco di nomi spezzati.
Forse erano tutti assorti nelle loro vite, anestetizzati dalle esistenze quotidiane che per sfuggire alla pazzia non possono ammettere che potremmo essere sull’orlo dell’abisso, che là fuori c’è un nemico intento ad annientarci. Che il passato non soltanto può tornare, ma è già qui, bussa alla nostra porta a Nord, a Sud, a Est, a Ovest. Avverte ogni nostra paura, ogni nostra convulsione, ogni nostro dolore e questo lo rafforza e lo eccita, nell’anticipazione del nostro sangue. Si viveva nell’ illusione occidentale di pace e decenza, ciechi ai barbari dei secoli bui che ci circondano.
Mi chiamo Gilad e non so quanti anni avevo quando mi hanno assassinato. Sono stato ucciso soltanto perché ero un ebeo indifeso nelle mani di gente che odia gli ebrei. Mi hanno ucciso in un gioco crudele, e la mia morte è stata accompagnata dalle stesse risa che hanno segnato i miei gorni infiniti di prigionia, il mio isolamento, la mia umiliazione, la mia disperazione. Sono stato ucciso perché sono ebreo e israeliano. La mia vita non era mai stata veramente una pedina di scambio, per i miei aguzzini. A loro non interessava davvero trovare un accordo per mandarmi a casa e riavere alcuni dei loro assassini. La mia vita era solo un giocattolo in una farsa sadica di umiliazione e abuso, in cui i nostri nemici hanno pregustato la loro vittoria e la nostra sconfitta, la loro eccitazione e il nostro sangue.
Neanche il dolore fisico mi importava più. Il mio corpo era stato pestato, ferito, bruciato e violato, ma il dolore non era più la mia vera agonia. Ciò che mi ha sconfitto è che sono morto ad Auschwitz, in un tempo in cui nessun ebreo sarebbe dovuto morire lì. Sono morto alla stessa maniera di Anna nelle mani de nazisti. Son morto solo e disperato, con due soli compagni, la vecchia paura, e la vecchia vegogna. Mi avevano promesso che non saremmo mai tornati nei campi. Ma è proprio lì che si è spenta la mia giovane vita.
Il mio campo, adesso lo so, aveva lo stesso odore e l’aria assurda di quello di Anna. Ma io sono morto a Gaza, a un passo da casa, dalla terra dove ero un soldato e in cui credevo la mia gente avrebbe finalmente potuto vivere libera, e in dignità. Sono morto perché avevamo armi, ma non le abbiamo usate. Sono morto con lo shock del passato che è tornato, senza che noi combattessimo. I miei aguzzini stanno ancora ridendo, mentre continuano a tormentare la mia famiglia, i miei amici, la mia gente, con riscatti crudeli e bugie assassine, assaporando il momento in cui saremo sconfitti e la loro orgia di sangue e sadismo si spalancherà su di noi e ci inghiottirà, di nuovo.
Ed è così incredibile come il mondo libero abbia accettato il mio destino. Non perché la mia vita avesse nessuna importanza – ero soltanto un normale ragazzino quando fui strappato alla mia nomale esistenza. Ma perché il mondo aveva promesso solennemente che non sarebbe accaduto di novo. Quella promessa è stata infranta. E’ successo di nuovo, e nessuno è intervenuto. Neanche la mia gente. La nostra determinazione ha vacillato, la nostra volontà ha ceduto. E tutta la nostra potenza non è servita a evitare che i cancelli di Auschwitz si spalancassero, di nuovo.
Tratto da Mario Rimini "Il Corpo d’Israele. L’ossessione omicida del nuovo islamismo", in via di pubblicazione.