Michael Ledeen suona la sveglia prima dell’attentato di Times Square e dopo

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Michael Ledeen suona la sveglia prima dell’attentato di Times Square e dopo

08 Maggio 2010

“Siamo in guerra”. Una guerra globale che tocca e ferisce “tutti quei paesi che sfidano il fanatismo dell’intolleranza, un proseguimento dell’antica guerra della tirannia contro la libertà”. Siamo a New York, è il 25 aprile 2010. A pronunciare queste parole da un improvvisato palchetto di fronte a più di duemila americani riuniti sotto la pioggia battente davanti al consolato israeliano, è un uomo dalla barba bianca che indossa un impermeabile e un cappello scuro. Il suo nome è Michael Ledeen, storico, saggista, giornalista, Freedom Scholar della Foundation for the Defense of Democracies, analista di politica e affari internazionali e molto molto altro. Chi non lo ama – e sono in tanti – lo dipinge come un perfido neocon guerrafondaio, per altri, e per se stesso, è un “rivoluzionario democratico” che da oltre trent’anni porta sulle spalle l’impegno di ricordare al mondo, e non solo a quello occidentale, i pericoli dei totalitarismi: dal nazifascismo al comunismo, da cold warrior durante la Guerra Fredda, fino al radicalismo islamico di oggi che minaccia la libertà e le conquiste dell’Occidente.

È probabile che, a dargli del veggente, Ledeen s’offenderebbe a morte. Fatto sta, però, che di lì a pochi giorni, sempre a New York, un cittadino americano di origine pachistana avrebbe parcheggiato nel bel mezzo di Times Square un Nissan Pathfinder imbottito d’esplosivo con l’intenzione incontrovertibile di fare una carneficina e infliggere all’odiato Satanasso con la casacca a stelle e strisce una ferita meritata e bruciante.

Quel 25 aprile, le parole di Ledeen cadevano sulla folla – e il senno di poi permette di dirlo – come una bomba. Alla faccia del politically correct, il maestro di libertà (freedom scholar appunto) spiegava che siamo nel bel mezzo di una guerra santa che di santo non ha nulla, portata avanti con pazzia adamantina da gente che odia l’America e Israele, un esercito sfuggente di professionisti del male che al tempo stesso riescono a odiare i cristiani, gli ebrei, gli indù, i buddisti e i tanti musulmani colpevoli soltanto di voler vivere nella pace e nella tolleranza.

In un intervento registrato qualche giorno dopo il fallito attentato di Times Square su Pajamas TV, commenta: “God protects the drunk, the blind and the United States of America”. Il fatto di averla scampata, almeno per questa volta, è stato insieme un act of God e un colpo di fortuna, ma certo “non significa che il sistema stia funzionando a dovere”. È possibile – gli chiedono – che tutto ciò possa fungere da sveglia per i piani alti dell’amministrazione Obama o per chi si occupa della sicurezza nazionale? Il rischio – risponde Ledeen – è di continuare ad andare avanti a questo modo mentre la gente continua a morire. D’altra parte, ogni giorno dei soldati americani, e non solo loro, “vengono uccisi da gente armata, finanziata, addestrata e guidata dall’Iran e nessuno se ne cura, nessuno ci presta la benché minima attenzione”. E ancora: a chi importa qualcosa delle persone che quotidianamente saltano per aria in Afghanistan? Who cares?

A quanto pare – prosegue Ledeen – la più grande delle preoccupazioni è quella di evitare le rappresaglie contro i musulmani o i pachistani. La frecciata è diretta al sindaco di New York Michael Bloomberg, il quale, dopo l’arresto dell’aspirante bombarolo, aveva messo in guardia i newyorkesi dall’abbandonarsi a “pregiudizi o ritorsioni” di sorta ai danni della comunità pachistana o islamica. Lo stesso Bloomberg che, intervistato da Katie Couric della CBS prima dell’arresto di Faisal Shahzad, aveva ventilato l’ipotesi che il fallito attentato fosse opera di un terrorista “di casa”, americano al cento per cento, forse “mentalmente disturbato”, al quale non è andata giù qualche scelta del governo. Come dire un conservatore con il cranio sfitto e “un’agenda politica che non vede di buon occhio la riforma sanitaria o qualsiasi altra cosa” e che invece di ubriacarsi come un marinaio in licenza o correre dallo strizzacervelli più vicino riempie un suv di esplosivo, fertilizzante e fuochi d’artificio e lo parcheggia nel cuore di New York per farlo saltare in aria con buona pace del dibattito democratico. “If I had to guess 25 cents, this would be exactly that”, aveva chiosato l’ineffabile sindaco.

Certo è che una crescente porzione degli Stati Uniti mostra un’inquietudine sempre più seria per quella che viene percepita come “cecità volontaria” del governo nei confronti della minaccia islamista. In particolare quando questa prospera e agisce sul territorio nazionale. Cosa devono sapere gli americani sulla realtà del radicalismo islamico all’interno dei confini statunitensi? Innanzitutto – risponde Ledeen – devono rendersi conto che esiste in casa loro un movimento jihadista “molto forte, ben organizzato, ben finanziato e globale. Un movimento che molto spesso – prosegue – è collegato all’universo delle moschee radicali (che attualmente negli Usa sono più di dodicimila), luoghi nei quali “si professa l’odio in qualunque forma e si lancia ai fedeli ogni genere d’incitamento”. Si tratta – avverte Ledeen – di una situazione che la gente, le forze di polizia e l’Fbi stanno facendo gran fatica nel gestire. “Ma un modo va trovato, o le cose rischiano di andare di male in pegggio. Andranno di male in peggio”.

Quel 25 aprile la gente, quelle oltre duemila persone, s’era riunita sotto il consolato israeliano per protestare contro il trattamento riservato a Israele dall’amministrazione Obama. Sotto quella pioggia Ledeen aveva ricordato: “Ci sono persone che occupano posizioni di grande prestigio e potere – alcuni nel governo, altri nella stampa, altri ancora nelle università – che insistono nell’affermare che tutto andrebbe bene se soltanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dicesse ad alcuni ebrei che non possono vivere in un certo quartiere di Gerusalemme”. Persone secondo le quali “i nemici d’Israele – che sono anche i nostri nemici – sarebbero disposti a rottamare il loro jihad globale se solo ci fosse un’altra nazione araba in Medioriente”. E così costoro, “per dimostrare la loro convinzione che il problema sia Israele”, trattano i nemici d’Israele “con un rispetto maggiore di quello mostrato agli israeliani”. Una delle conseguenze: “Il primo ministro Netanyahu è trattato alla Casa Bianca come un ospite sgradito, mentre agli islamici più radicali si chiede in continuazione, e in maniera estremamente educata, di essere ragionevoli e di diventare nostri amici”. Anzi, “qualche volta vengono persino omaggiati di un inchino”, riferendosi all’ossequioso gesto riservato da Obama a re Abdullah di Arabia Saudita.

C’è in tutto questo – ripeteva Ledeen – qualcosa di folle. Qualcosa di “moralmente corrotto e strategicamente sbagliato”. Come nel caso di Teheran: “La Repubblica Islamica dell’Iran, il principale sponsor mondiale dei terroristi, ha dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1979, e ci ha fatto guerra per trentuno anni”. Oggi, i terroristi da essa sostenuti e foraggiati “ammazzano soldati americani in Iraq e in Afghanistan e, contemporaneamente, organizzano assalti letali contro civili e militari israeliani. E a tutt’oggi Hezbollah riceve nuovi missili e razzi, nuovi e preziosi elementi d’intelligence e nuovi rifornimenti di munizioni direttamente dall’Iran”. Eppure, in tutti questi anni, “gli Stati Uniti non hanno mai sfidato direttamente l’Iran, non hanno mai fatto in modo che quell’abominevole regime pagasse un prezzo adeguato per tutti gli omicidi che ha commesso e appoggiato”.

Non servirebbe neanche andare troppo a fondo per capire con chiarezza che “i mullah non fanno alcuna distinzione tra Stati Uniti e Israele, se non una strettamente geografica: Israele è più vicina”. Perché entrambi sono e restano un bersaglio da colpire e distruggere.