Mike Huckabee, un ricco che può entrare nel regno dei Cieli

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Mike Huckabee, un ricco che può entrare nel regno dei Cieli

Mike Huckabee, un ricco che può entrare nel regno dei Cieli

25 Febbraio 2008

“Vale di più una pietra ben levigata di un esercito di
soldati” ha detto Mike Huckabee in uno dei suoi discorsi elettorali, proponendo
– come spesso gli accade – un’immagine biblica, nel caso specifico quella di
Davide che sconfigge Golia grazie alla sua fionda. Fin qui niente di
particolare, se solo si tiene conto della fortissima impronta cristiana che è
presente nell’identità americana, come del resto L’Occidentale ha spesso sottolineato, segnalando ai suoi lettori
libri di pregio in uscita negli States, alcuni dei quali sono stati poi
inseriti nel proprio catalogo anche da editori italiani (è il caso, per esempio, di Americanism: the Fourth Great Western
Religion
di David Gelernter, la cui traduzione è in preparazione, proprio
in queste settimane, presso Liberilibri di Macerata).

Per un italiano può fare un certi effetto, invece, sapere
che Huckabee è persona molto devota e, nel contempo, imprenditore di successo:
ma come è possibile? Non ci hanno insegnato, citando puntualmente il vangelo di
Matteo, che “E’ più facile che un cammello passi nella cruna di un ago, che un
ricco entri nel regno dei Cieli”? Non è forse la ricchezza incompatibile con
una vita ispirata ai principi evangelici? In realtà l’interpretazione del Nuovo
Testamento non è così univoca come siamo portati a pensare noi italiani, o
almeno non è certo difficile trovare altri passi in cui il successo
intramondano, e la ricchezza che ne può discendere, sono oggetto di una lettura
decisamente più benevola. Si prendano per esempio le lettere di San Paolo, su
cui si fonda la giustificazione per fede del Protestantesimo in genere e, in
particolare, il concetto di Predestinazione del Calvinismo. Su questi concetti,
non senza una certa audacia, Max Weber ha costruito il suo famoso L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo
, in cui delineava la tesi di un’affinità elettiva fra le
confessioni evangeliche e l’intrapresa moderna.

Al di là della fondatezza di una teoria di questo genere, è
indubbio che nel Cattolicesimo abbia sempre prevalso la convinzione che la
povertà fosse la condizione più prossima al Cristianesimo delle origini e
coerente con i princìpi evangelici, mentre nel credo evangelico, specialmente
anglosassone, è più forte l’interpretazione “elettiva” dell’esperienza terrena,
alla base della quale c’è il concetto di “grazia”: è Dio a donarla ad alcuni,
negandola ad altri. Ma come fanno gli uomini a sapere chi è oggetto della
predilezione divina? Lo desumono dal successo terreno: chi ne è investito ha
Dio al suo fianco, mentre chi ha una vita grama non gode dei favori
dell’Altissimo.

Due ideologie solo di diverso segno? Certamente, almeno in
un certo senso, ma una, quella anglosassone, tesa ad esaltare l’eccellenza, l’altra,
la nostra, più incline ad assolvere la mediocrità.
Considerazione grezza e brutale? Forse, ma proviamo un attimo
a riflettere sugli effetti che produce a livello culturale. Si nota spesso, e a
ragione, che la meritocrazia è moneta corrente negli Stati Uniti, mentre
altrove stenta: non si potrà negare il contributo che può darle lo spirito
evangelico e, nel contempo, le difficoltà che questa può incontrare là dove
prevale la retorica degli “ultimi saranno i primi”, sovente strumentalizzata
per finalità tutt’altro che nobili. Negli Stati Uniti il fatto che un
imprenditore di successo si affacci sulla scena pubblica, in sé, non
rappresenta nulla di particolare (senza andare lontano Michael Bloomberg,
magnate dei media finanziari, è l’attuale sindaco di New York), mentre da noi
Silvio Berlusconi ha rappresentato, e per alcuni sembra ancora costituire,
l’«anomalia della politica italiana». In quello che viene unanimemente
considerato il discorso politico del XX secolo – quello pronunciato da John
Kennedy nel momento in cui si insediava alla Casa Bianca dopo la vittoria nelle
elezioni del 1960 – il Presidente esortava i suoi connazionali a chiedersi non
quello che l’America avrebbe potuto fare per loro, ma al contrario quello che
loro avrebbero potuto fare per il proprio paese.

Ci sarà mai in Italia una campagna elettorale giocata su
affermazioni di questo tipo? Lo speriamo; di certo questa è una sensibilità che
può essere più credibilmente proposta da chi ha alle spalle dei successi nella
società civile. Sarà un caso che i politici di professione non siano gli unici
protagonisti della vita pubblica americana, ma solo una minoranza (detto per
inciso, non casualmente, è questo il principale tallone d’Achille che gli
osservatori più avveduti attribuiscono alla candidatura di Barack Obama)? Una
prassi sostanzialmente consolidata, viceversa, chiede loro di dimostrare
comprovata affidabilità in altri ambiti prima di occuparsi degli interessi
generali: forse anche su questo sarebbe il caso di riflettere da noi in un rovente periodo
elettorale come quello in cui ci accingiamo ad inoltrarci.