Milano non sa più innovare perché ha perso il contatto con la tradizione

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Milano non sa più innovare perché ha perso il contatto con la tradizione

20 Aprile 2009

Una delle cose che mi manca della mia adolescenza milanese è quel rapporto con la tradizione che esisteva allora, parlo degli anni Sessanta, nella mia città. Nonostante il capoluogo lombardo fosse stato investito duramente dai tanti passaggi traumatici del Novecento, dalla Prima guerra mondiale al fascismo, alla Seconda guerra, il rapporto con “la tradizione” era vitale: l’illuminismo di Verri e Beccaria, le tradizioni della borghesia ottocentesca, il pensiero di Cattaneo, il riformismo socialista, il futurismo, il Corriere albertiniano, le vicende sindacali del secondo dopoguerra, le scuole di filosofia, di poesia, di pittura e architettura facevano parte della abituale riflessione culturale e politica, ne erano il sangue e la carne. A Roma il rapporto con la tradizione è ancora ben più vivo che qui al Nord: innanzi tutto grazie a una Chiesa che, al contrario di quanto pensano alcuni autorevoli cattolici milanesi o milanesizzati come Alberto Melloni, non parte dal 1962 ma da circa due millenni fa, e quindi garantisce automaticamente questa relazione.

Invece sotto la Madonnina, prima il ’68 poi il giustizialismo del ’92 hanno intaccato profondamente alcuni meccanismi di trasmissione della tradizione con seri problemi per la vita cittadina. Uno dei principali tra questi è che i “nostri vecchi” si comportano un po’ come matti. Non è che nella tradizione milanese mancassero i moralisti anche di grandissimo livello, che non vi fossero alti maestri impegnati a richiamare la deriva dei costumi. Ma tra gli anziani di maggior rilievo della mia adolescenza prevalevano la compostezza, la serenità nel giudizio, lo sforzo di spiegare. Erano questi gli elementi fondativi della loro lezione. Oggi dal celebre cantante al luminare dell’oncologia, dall’architetto di fama al vecchio giornalista, al sublime pagliaccio trasformatosi in mediocre agitatore politico e premiato dal Nobel, fino all’amato direttore d’orchestra, la regola è spararle grosse, dire più insensatezze che si riesce nel tempo minore possibile, assumere comportamenti non da saggi ma da sgallettati.

Non è un problema solo dei singoli, anche se questi ci mettono la loro, è proprio la sofferenza da rottura della tradizione che ha fatto uscire dai cardini i grandi vecchi, li ha ridotti a folli tipo re Lear, quando non a vecchi malvissuti di manzoniana memoria.

Talvolta si rendono conto loro stessi di assumere atteggiamenti assurdi. Si consideri un formidabile artista come Claudio Abbado che alla richiesta di dirigere nuovamente alla Scala (da cui si era allontanato innanzi tutto per i dissidi con quella struttura medieval-corporativa che è l’orchestra scaligera), aveva risposto: vengo solo se Milano pianterà novantamila nuovi alberi. Poi, però, questa richiesta evidentemente strampalata è stata accolta da Letizia Moratti che insieme ad Abbado si è messa a girare per Milano, indicando i posti (si parla anche del crimine di mettere della piante in quel sacro luogo di pietra che è piazza del Duomo), il geniale direttore di orchestra se ne è uscito con una saggia considerazione: ma la mia era solo una boutade.

E’ evidente che qualunque volontaristico appello di ritorno alla saggezza dei vecchi è destinato al fallimento. E l’insensata gestione delle richieste di Abbado non farà che moltiplicare le anziane follie. Il corso degli avvenimenti non si inverte mai con le prediche bensì con gli atti. Alla fine degli anni Novanta la giunta Albertini riuscì a mettere insieme un gruppo di politici di qualità (Maurizio Lupi, Sergio Scalpelli, Luigi Casero) con qualche intellettuale capace (da Paolo Del Debbio a Giorgio Goggi a Salvatore Carruba poi sostituito da un altrettanto bravo Stefano Zecchi) con un city manager di rilevanti capacità (Stefano Parisi), la città riprese subito a camminare, furono compiute opere che parevano impossibili (come la Nuova Scala e la Nuova Fiera), i grandi vecchi stemperarono la loro tendenza alla profezia impazzita. Bastò poco, una serena e illuminata guida della città, per venire incontro a chi come me cerca di ricollegare il vivere moderno alle tradizioni. Consapevole che sia il metodo più solido anche per innovare.