Molte buone ragioni per cui sarebbe meglio non definirsi laici

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Molte buone ragioni per cui sarebbe meglio non definirsi laici

07 Aprile 2011

Da diversi decenni ormai continuano a pubblicarsi, in Italia, articoli e saggi che rievocano le grandi e nobili figure della tradizione laica. Storia dei laici, Maestri e Compagni, I miei maggiori: si tratta di una fabbrica delle idee che non raggiunge mai il grosso pubblico ma che è sempre in attività e può contare, sui quotidiani più diffusi, su sicuri spazio pubblicitari (gratuiti). Nulla di male, beninteso. Il genere agiografico ha sempre avuto i suoi cultori-scrittori e lettori. Durante il regime fascista, potevano vedersi collane come le "centurie di ferro" e altre simili, dedicate agli eroi, a i "martiri" e ai precursori della Marcia su Roma. Ed è forse superfluo ricordare l’importanza dell’agiografia nei secoli della fede e dell’egemonia cattolica sull’educazione dei popoli. Insomma ogni epoca ha avuto le sue "vite dei Santi" e questa, per i credenti, è la riprova che di una qualche forma di religiosità (della trascendenza o dell’immanenza) gli uomini hanno sempre avuto bisogno.

Nel nostro paese, però, la fenomenologia assume tratti specifici e, sotto il profilo democratico, talora regressivi. Innanzitutto la laicità che starebbe a fondamento della civic culture e della Costituzione repubblicana non viene mai definita con precisione. A volte si identifica con lo spirito stesso della filosofia moderna – dall’empirismo scettico di David Hume al fallibilismo di Karl R. Popper -, a volte con l’etica kantiana e con l’imperativo categorico: "Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo" a volte con l’autonoma delle dimensioni vitali in cui è inserito l’uomo moderno dai ‘distinti’ di Benedetto Croce alle ‘sfere di giustizia’ e all’arte della separazione di Michael Walzer. In ciascuna di queste accezioni, la categoria ha l’estesa denotazione di cui godono le opinioni scontate. Chi potrebbe mai pensare, infatti che la ragione sia in grado di farci scoprire la Verità? Chi non è d’accordo sul rispetto che si deve a ogni essere umano? Chi è disposto a subordinare l’etica alla politica o viceversa? Ma se la denotazione è ampia, la connotazione è incerta, sul piano conoscitivo, nel senso che soddisfa assai poco la regola aristotelica della definizione per genus proximum et differentiam specificam. E, quel che è peggio, finisce per assumere solo un significato "polemico": non mette a fuoco una diversità oggettiva ma identifica una qualità alta dello spirito, una superiorità morale.

L’opposto di laico, in tale contesto, è ‘dogmatico’: il laico è Filippo Salviati (Galileo), il dogmatico è il peripatetico Simplicio del Dialogo dei massimi sistemi. Se mi qualifico come ‘socialista è per distinguermi da un altro che può essere un democristiano, un liberale etc. Posso ritenere di avere idee migliori e più moderne di lui ma, etichettandomi come ‘socialista’, non lo pongo certo su un piano inferiore al mio. La mia autopresentazione ideologica non è molto diversa, sotto questo aspetto, da una autopresentazione geografica: se, in uno scompartimento ferroviario, il mio vicino si dichiara ‘siciliano’, non lo metto in imbarazzo se gli dico di essere marchigiano. Nel caso del ‘laico’, invece, le cose cambiano radicalmente. Nello ‘stile di pensiero’ in esame, davanti a me non sta semplicemente uno che ha idee differenti dalle mie ma uno che le ha sbagliate e che, se andasse al potere, si comporterebbe come gli Inquisitori spagnoli o gli ingegneri bolscevichi delle anime.

Sennonché se ‘laico’ è il cittadino della ‘società aperta’ e il non-laico è il suddito della ‘società chiusa’, il sano dubbio scettico non dovrebbe metterci in guardia dalla tentazione di collocarci d’ufficio nella categoria ‘buona’? Dirsi laico equivale a dirsi ‘intellettualmente onesto’, disinteressato, disponibile all’ascolto degli altri, insomma un Garrone di deamicisiana memoria. Che si possa ritenere di far parte della ‘santa schiera’ senza essere sfiorati dall’ombra del ridicolo desta qualche preoccupazione. In realtà, il termine ‘laico’ – come gli anti del dibattito ideologico a cominciare dall’antifascismo – dovrebbe essere usato come aggettivo e bandito come sostantivo, se davvero si vuole instaurare una convivenza civile tra ‘diversi’. Si danno comportamenti e discorsi laici – nel senso che non sono determinati da ‘partito preso’o da militanza ideologica o dalla fede religiosa ma si avvalgono dell’uso critico della ragione e si richiamano a principi universali, che dovrebbero trovare tutti concordi – ma non è dato incontrare "laici" tout court, come invece s’incontrano cattolici e protestanti, agnostici e atei.

Nel fascicolo di MicroMega dedicato al tema "Berlusconi e fascismo.2", si riporta un significativo dibattito tra il cattolico ortodosso Francesco D’Agostino e la "laica" Roberta de Monticelli. Nel corso del match, il giurista cattolico fa valere i principi della ‘civiltà del diritto’ mentre la filosofa illuminista, sposa le tesi del giustizialismo oltranzista. Il primo ricorda che "uno dei principi fondamentali di uno Stato di diritto, e cioè la presunzione di innocenza" viene calpestato quando un processo "viene celebrato da e sui giornali", la seconda condanna "la totale mancanza di sensibilità nei confronti dell’ingiustizia, una insensibilità spacciata per distacco razionale, per capacità di distinguere e mantenere separati il campo dell’etica da quello della politica". Chi dei due è il laico e chi resta ancorato alla visione premoderna del diritto e della politica che vuole diritto e politica al servizio dell’etica (quella della de Monticelli, ovviamente, non quella della massa damnationis che vota per il Cavaliere)?

Forse sarebbe meglio dire, nei singoli casi, che Tizio è laico e Caio non lo è ma che entrambi adottano, a volte, uno stile laico e, altre volte, uno stile opposto, a volte ragionano molto su quel che fanno e dicono e si sforzano di giustificare pensiero e azione con argomenti sottoscrivibili da tutte le persone sensate e ragionevoli, altre volte si lasciano trasportare dalla passione e dal risentimento. Nel dibattito di MicroMega, D’Agostino si è comportato in modo laico ma non posso dare lo stesso giudizio quando si occupa di temi bioetici. Forse il contrario potrei dire della de Monticelli ma, sempre con beneficio d’inventario e col sano dubbio humeano che potrei sbagliarmi e con la disposizione ‘laica’ a cambiare opinione. Ribadisco, la laicità mi sembra una possibile qualità dell’azione non la natura fissa e immota dell’agente: è un metro di misura dei comportamenti individuali e sociali, non la maglia indossata da una delle due squadre in campo. Nelle società secolarizzate, infatti, le squadre competono in posizione di parità mentre una formazione coi colori laici, cresimata dall’imperativo kantiano, potrebbe, tutt’al più, tollerare la formazione rivale ma non trattarla alla pari e rispettarla. Nessuno scienziato potrebbe stimare un chimico che giuri sulla formazione del flogisto.

Ci sono due modi per salvare il ‘laico’come sostantivo: il primo è quello di intenderlo nel senso del membro del ‘laicato’in quanto distinto dal ‘clero’: qui la connotazione è tanto precisa quanto irrilevante, come irrilevanti sono tutte le cose ovvie. Il secondo è quello di riproporre  la storica contrapposizione tra ‘laici’ e ‘cattolici’, dove laico non è chi non veste l’abito talare ma chi non fa parte del "gregge del Signore". Tale contrapposizione, però, risulta sempre più vuota. A livello universitario, sono anni che i concorsi a cattedre non prevedono più, in virtù di una tacita ‘costituzione materiale’, una ripartizione dei vincitori tra cattolici e laici mentre a livello politico, il va sans dire ben più rilevante, la fine della DC, e la diaspora dei cattolici in tutti i partiti hanno reso l’antica frattura un ricordo del passato. Quando sono in discussione leggi che toccano il campo minato della bioetica, sembra ricomporsi un ‘fronte cattolico’ trasversale ai partiti presenti in Parlamento ma, in realtà, si ha la sensazione di una chiamata a raccolta di reduci, dove non tutti i reduci, peraltro, si ritrovano d’accordo su certe misure e su certe leggi per l’appunto ‘laiche’.

In ogni caso, nella ‘contrapposizione storica’, si sa bene cosa siano i cattolici – identificati da riti, credenze e obbedienze specifiche – ma, quanto ai laici, sono identificabili solo negativamente come "non credenti" o seguaci di altre religioni (cristiane o non). Si tratta di una ‘caratterizzazione’ che, almeno in teoria, non genera conflitti o complessi di superiorità ma neppure quell’orgoglio dell’appartenenza che vorrebbero suscitare i cantori della laicità, nelle loro allocuzioni massoniche fuori stagione. Se la divisione, infatti, è tra chi crede e chi non crede, si può esaltare il valore dell’ateismo solo all’interno di una visione a suo modo religiosa e dogmatica che mal si concilia, tuttavia, con la filosofia moderna, scettica e prudente, iscritta nel dna della laicità. E, comunque, va anche fatto rilevare che non solo la categoria dei "non credenti"non è unita dall’"essere qualcosa" bensì dal "non essere qualcosa", ma, al suo interno, è composta da una grande maggioranza di ‘agnostici’ e solo da una esigua minoranza di atei. Per molti agnostici la compagnia degli atei è ancora più insopportabile di quella dei ‘credenti’, avvertendo confusamente nell’ateismo militante una forma di fondamentalismo ‘a rovescio’ insopportabile e indigesta.

Comunque, e per fortuna, le divisioni che gli ‘atei razionalisti’ e la Società Giordano Bruno vorrebbero aggiungere alle tante che già lacerano il tessuto sociale e culturale del nostro paese, interessano solo un’esigua minoranza. Sul terreno del buonsenso e della quotidianità, l’uso del termine ‘laico’ come sostantivo è fuor di dubbio legittimo ma si riferisce a un dato ‘oggettivo’ neutro, deserto di simboli e di valori forti. Se i ‘laici’ sono quelli che non vanno a messa e non fanno la comunione, scriverne la storia sarebbe come scrivere la storia di quelli che hanno i capelli rossi o di quelli che hanno la voce intonata.

Non nascondiamoci dietro un dito, mi si potrebbe dire. C’è un’accezione diffusa e scontata di ‘laico’ che ne fa l’antitesi non del ‘credente’ ma del ‘clericale’, definito, quest’ultimo, come l’uomo di fede che, in tutto e per tutto, si uniforma alle direttive della Chiesa. Capisco l’obiezione ma ritengo che alla sua base ci sia un equivoco: la ‘dipendenza’ che si stigmatizza è negativa in sé o è tale a seconda delle direttive alle quali ci si uniforma? Se l’ordine dall’alto è buono ma il destinatario si rifiuta di obbedire, la sua "indipendenza" è ancora un valore? Si ha l’impressione che i talebani della laicità non apprezzino tanto l’"autonomia del volere" quanto la ‘disobbedienza civile’a imperativi (secondo loro) destituiti di senso e lesivi della dignità umana. Se, però, le cose stanno così, si fuoriesce dalla logica ‘moderna’, che rimane tutta sul piano del ‘metodo’, in virtù della  consapevolezza della ‘relatività dei valori’ e della scissione dell’etica dalla verità – è la grande lezione dei Libertini e di Montaigne – e si ricade in una concezione sostantiva del bene che, come tutte le teorie forti, si traducono in doveri vincolanti per tutti e nella trascrizione sulla lavagna pubblica dei nomi dei buoni e dei cattivi. ‘Laico’, allora, non è più chi cerca di ragionare con la sua testa, di dare un voto o di sostenere un referendum, dopo aver vagliato il pro e il contro dei vari programmi, ma chi "ha scelto bene".

Ma esistono, poi, i ‘clericali’ come se li immagina il laicista? Non nego, per carità, che vi siano individui che "in tutto e per tutto si uniformano alle direttive della Chiesa" (la Binetti UDC e la Roccella PDL ne sono un esempio da manuale) ma, a ben guardare, sono una minoranza. Gli uomini, che s’incontrano tutti i giorni per strada, a volte seguono e a volte non seguono la Parola che viene dal pulpito: sono ‘clericali’ nel primo caso e ‘laici’ nell’altro? Se, ad esempio, per dimostrare la loro liberté d’esprit, non ritenessero di dover rispettare un’eventuale enciclica papale che (finalmente!) condannasse il mattatoio pasquale dei candidi agnellini, darebbero per questo prova di laicità? E un ateo, che fosse d’accordo col papa nel non riconoscere alle coppie gay il diritto di adozione, diventerebbe per questo ‘clericale’?

La laicità, nella sua accezione filosofica in senso lato, non sta nella disobbedienza o nell’obbedienza alle norme buone di condotta (buone per chi? O perché?) ma nel modo della disobbedienza e dell’obbedienza, nello sforzo fatto su di sé per far prevalere la ragionevolezza pacata  sulle pulsioni irrazionali. Si può obbedire al papa da ‘laici’ e disobbedire da ‘clericali’, cioè lasciandosi condizionare da interessi o da prospettive di guadagno che vengono fatti baluginare "dall’esterno". Per tutte queste ‘buone ragioni’, sarebbe meglio non definirsi ‘laici’, e cominciare ad avvertire il ridicolo di una qualifica, che ove non richiami  la messa di mezzanotte del 24 dicembre o  i precetti pasquali, non ha più un significato descrittivo e neutro ma un significato valutativo e positivo. Come nessuno si autoetichetta come ‘buono’ ma semplicemente si propone di comportarsi ‘bene’, così nessuno dovrebbe appuntarsi all’occhiello della giacca un distintivo che ha senso rispetto all’<agire> ma non rispetto a un "modo d’essere", che richiama il  fondo oscuro della nostra anima dove solo Dio può ficcare lo sguardo (posto che esista).

Tirando le fila del discorso, la laicità è un’arma politica e culturale solo in virtù dell’appropriazione indebita che continuano a farne  i ‘laicisti’. In sé, non è affatto divisiva, essendo diventata il senso comune dell’Occidente liberale e democratico, che non può venir monopolizzato da nessuna ‘famille spirituelle’. E’ non poco significativo, del resto, che cattolici come Dario Antiseri abbiano contribuito più dei ‘laici’ come Norberto Bobbio a diffondere in Italia il pensiero e le opere di K. R. Popper, sicuramente uno dei momenti più alti della filosofia moderna.