Molte domande, molte risposte, molti dubbi sul nazismo

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Molte domande, molte risposte, molti dubbi sul nazismo

05 Aprile 2009

Nel suo libro più bello (“Le origini culturali del Terzo Reich”) lo storico israelo-americano Georg Mosse si chiedeva di quale cultura si fosse nutrito il nazismo. Quali eventi intellettuali lo avevano preparato, quali idee gli avevano consentito di nascere? Queste domande erano legittime, ovviamente, solo se non si credeva che il nazismo fosse sorto all’improvviso e in modo inspiegabile sul suolo tedesco, come una malattia senza cause. Ricostruire le origini culturali di un evento, però, non significa automaticamente identificarne le cause: la causa è qualcosa che produce un effetto, mentre le “origini” isolano solo un momento precedente legato all’attuale da rapporti talvolta solo temporali.

Anche una ricerca che non metta in campo “cause” si interroga però necessariamente su questo quesito: in che modo si passa da una situazione “normale” a una situazione “patologica”? In che modo si passa da un regime liberaldemocratico (seppure estenuato, seppure pieno di problemi come quello di Weimar) a un regime totalitario? In che modo si coagulano in una ideologia coerente frammenti isolati già presenti nel panorama culturale di un paese? In che modo una credenza senza particolare valore e significato diventa parte di una temibile arma da guerra? In che modo, insomma, si genera quella variante – parliamo sempre del mondo della cultura – che fa sì che un attimo prima fossero presenti temi e correnti culturali e un attimo dopo si sia di fronte a una temibile e sanguinaria ideologia politica?

Demonizzare non serve a niente: il fatto che giudichiamo il nazismo un regime terribile non ci aiuta. Serve invece comprendere il modo in cui elementi sparsi si uniscono e formano una ideologia coerente, compatta anche se non monolitica, utile a produrre consenso. Gli storici su questo si sono divisi. Per alcuni i regimi totalitari non ebbero una cultura degna di questo nome: tutto ciò che essi toccarano si contaminò, e sopravvisse come cultura autentica solo ciò che era preesistente alla loro comparsa. Per altri, invece, tali regimi ebbero una loro cultura. Georges Bensoussan, nel volume Genocidio. Una passione europea, ora tradotto in italiano, ha una posizione che non si identifica né con l’una né con l’altra: a suo parere quella cultura esisteva, ma era formata da temi e correnti che preesistevano sul suolo tedesco ed erano pronti per essere utilizzati dal nazismo.

Insomma. se si dovessero esplicitare le domande che vengono poste oggi dalla storiografia sulle origini culturali dei totalitarismi europei, queste si potrebbero riassumere nelle tre seguenti: 1. quali elementi della cultura preesistente i totalitarismi insorti in Europa negli anni fra le due guerre hanno utilizzato? 2. i totalitarismi hanno elaborato una cultura o si sono limitati a utilizzare quella che già esisteva prima che essi nascessero? 3. in che modo i totalitarismi hanno risposto alle stesse domande alle quali cercavano di rispondere nella stessa epoca le liberaldemocrazie e in particolare il New Deal?

Alla domanda numero 1 si applica il testo di Bensoussan: la sua risposta è che le teorie razziste diffuse nella cultura tardo ottocentesca e primo novecentesca, un darwinismo sociale che sottolineava l’elemento della selezione del più adatto nella dinamica della società, l’esaltazione della guerra e del militarismo, il culto della virilità intrecciato alla misoginia, un diffuso antisemitismo, formavano il sostrato pronto per essere utilizzato da un regime come quello hitleriano. Notiano che tali elementi, però, erano presenti in ogni paese europeo, e perfino negli Stati Uniti. La domanda allora andrebbe riformulata in questi termini: perché in alcuni paesi, in cui erano presenti allo stesso modo che negli altri, elementi culturali favorevoli a una loro traduzione politica totalitaria, quella cultura non fu sufficiente alla instaurazione di un regime totalitario?

La questione a cui si applica Bensoussan oggi a proposito del nazismo è stata sollevata più e più volte, soprattutto in anni lontani, a proposito del fascismo italiano e della questione se il fascismo avesse elaborato una sua cultura o si fosse servito della cultura preesistente. Le risposte sono state varie, e hanno fatto un passo avanti solo dal momento in cui la ricerca ha analizzato davvero la cultura del fascismo: le riviste razziste, l’organizzazione della cultura, la partecipazione dei giovani ai Littoriali, le imprese culturali. Il fatto è che nel rispondere a quella domanda vengono impiegati due concetti diversi di cultura: uno è quello di cultura tradizionale, classica, il puro distillato di sforzi individuali, l’opera del genio; il secondo è quello di cultura di massa, di ideologia, di cultura utilizzata da una ideologia politica.

L’ideologia non snatura necessariamente la cultura, ma certo la utilizza: se ne serve per mobilitare all’azione politica o prepolitica, per suscitare consenso, per offrire giustificazioni a una politica in atto o in preparazione. Quando Norberto Bobbio affermava che il fascismo non aveva prodotto una cultura sua ma si era limitato a utilizzare la cultura precedente, che gli intellettuali – quando avevano prodotto cultura – si erano automaticamente posti fuori del fascismo, faceva riferimento alla prima delle due idee di cultura ricordate: una cultura senza contaminazioni con la politica, disinteressata e autonoma, che non poteva essere mezzo per niente di diverso da sé. Ovvio, da questo punto di vista, che la cultura fascista non potesse inserirsi in questa idea. Ma quando sono stati studiati l’Enciclopedia italiana, il culto del littorio, i GUF e il razzismo, è un’altra idea di cultura quella che è stata messa in campo: una cultura in stretta relazione con la cultura di massa, legata a doppio filo con la politica (anche se non esaurita in essa), una cultura che serve a interpretare la storia, a progettare il futuro, a darsi una identità. La risposta alla domanda numero 2 è tutta contenuta in questo nuovo modo di lavorare.

Nella risposta alla domanda numero 2 (ma, come vedremo subito, anche alla numero 3) l’opera “La nazionalizzazione delle masse” di Georg Mosse ha svolto un ruolo influente. Ha utilizzato un’idea di cultura e di ideologia diversa da quelle che si erano fino ad allora usate in prevalenza: si trattava di feste, adunate, comizi, celebrazioni pubbliche, monumenti, targhe, lapidi, addobbi cittadini. Attraverso tutto questo si attivava la “nazionalizzazione delle masse”. Ma che cosa era esattamente la nazionalizzazione delle masse? In una frase, era  l’inclusione delle masse nello Stato nazionale per mezzo della costruzione di una opportuna memoria storica. Il risultato ultimo era politico, ma i suoi atti preparatori non lo erano. Il nesso fra cultura e politica si poneva dunque in Mosse in modo peculiare: non esisteva né separazione totale fra questi due termini (come nella concezione che voleva la cultura e i totalitarismi come due  elementi che non avevano niente a che fare l’uno con l’altro) né legame indissolubile e quasi identificazione.

Resta la domanda numero 3: in che misura si assomigliano e differiscono fra loro esperienze liberaldemocratiche e totalitarie negli anni fra le due guerre rispetto a temi comuni, a problemi identici, a percorsi paralleli legati tutti all’inclusione delle masse nello stato nazionale? La strada di Mosse e di altri storici  permetteva (e in questa direzione venne usata anche in Italia) di affermare un parallelismo stretto fra i due tipi di esperienze dal segno politico differente: tutte (in particolare fascismo e nazismo da una parte, New Deal dall’altra) avevano cercato di nazionalizzare le masse che erano il risultato dello sviluppo industriale e sociale. Ciò era avvenuto attraverso l’intervento dello Stato nell’economia, la creazione di una simbologia nuova, l’estetica della politica, l’idea che la modernizzazione dovesse essere accolta nel proprio progetto politico, una forma non identica ma comparabile di leaderismo carismatico. Di simile i due tipi di regimi hanno anche un grande lavoro sull’identità nazionale, la selezione nel passato di una memoria storica in funzione dell’immagine attuale di se stessi. Peccato che il paragone tra Stati Uniti e Germania, così come le altre indicazioni contenute nelle prime opere di Mosse, sia divenuto ben presto (e prima di tutti per lo stesso autore) una moda storiografica invece di tradursi in ricerca.

Della domanda numero 3 Bensoussan non si cura affatto (e invece, come vedremo, gli sarebbe stato utile), mentre ovvia è la sua risposta alla domanda numero 2: il nazismo utilizzò la cultura presente nel paese per farne la sua cultura. Al punto che a suo parere il nazismo si spiega tutto con elementi preesistenti: il pessimismo storico, l’opposizione alla modernità, la critica dell’industrialismo e dei suoi effetti, l’eugenetica, il darwinismo sociale, il razzismo. Quegli elementi però, utilizzati tutti insieme, costituirono la cultura del nazismo.

Quanto all’antisemitismo, Bensoussan ne nota la presenza massiccia in Germania ben prima del 1933, e riconduce la persecuzione dell’ebreo alla necessità di un capro espiatorio per i problemi della modernità in un’epoca di completa secolarizzazione. L’obiezione che si potrebbe rivolgergli è questa: se l’ebreo è una creazione che serve a cristallizzare le inquietudini che riguardano un mondo in trasformazione e secolarizzato, perché si ebbe la Shoah solo in Germania? Non erano nelle stesse condizioni tutti i paesi sviluppati? Non si rende ragione in questo modo del “perché proprio lì”.

Della cultura che prepara il nazismo, Bensoussan sottolinea il biologismo e l’antisemitismo. Conseguentemente, le origini del Terzo Reich sono rintracciate nella cultura razzista, nel darwinismo sociale, nell’antisemitismo diffuso. Ma l’ideologia nazista non era solo questo: comprendeva in modo essenziale l’idea del destino storico della Germania e della sua necessaria espansione a scapito degli altri paesi. E, d’altra parte, razzismo, darwinismo sociale, antisemitismo erano diffusi ben oltre la sola Germania: è su questo che una comparazione con regimi diversi da quello nazista sarebbe stata illuminante. L’autore si rende conto della difficoltà, e tira in ballo due altri elementi: la convinzione tedesca di essere una nazione a parte superiore alle altre, convinzione largamente presente dal medioevo al 1933, e l’antimodernismo. Quanto al primo elemento, appare difficile poter ridurre tutta la cultura tedesca a un nazionalismo di questo tipo. Quanto al secondo, notiamo che anche il nazismo conteneva una parte filomoderna che si traduceva nella esaltazione dell’industria tedesca e della sua macchina da guerra. E, peraltro, è difficile pensare che la deprecazione delle città e dei guasti dell’industria possa, di per sé, condurre ai lager. Bensoussan sostiene che l’antimodernismo ha prodotto regimi di una violenza estrema: ma lo stalinismo credeva nella modernità, così come una parte del fascismo italiano, e lo stesso nazismo non era da meno.

Molte domande, molte risposte, molti dubbi.

G. BENSOUSSAN, Genocidio. Una passione europea, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 396, euro 21.