Monti/Napolitano: un presidenzialismo senza legittimazione democratica

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Monti/Napolitano: un presidenzialismo senza legittimazione democratica

21 Novembre 2011

Ora che il governo presieduto da Mario Monti ha ottenuto la fiducia del Parlamento, è possibile un primo bilancio sul significato che questo eseecutivo assume nella storia politico-istituzionale italiana.

Il dato principale, ammesso da quasi tutti gli osservatori indipendentemente dal giudizio di merito che viene data sull’operazione, è che la genesi del governo Monti rappresenta un vero e proprio "commissariamento" della politica italiana ad opera del Capo dello Stato, per mezzo di un’élite di "tecnici" e alti funzionari. Un commissariamento motivato con ragioni di "emergenza nazionale", che si può riportare alla casistica dei "governi del Presidente" comparsi in Italia quasi un ventennio or sono, nel momento di massima crisi del sistema dei partiti sotto l’attacco delle inchieste giudiziarie: gli esecutivi presieduti da Giuliano Amato, da Carlo Azeglio Ciampi e da Lamberto Dini, sotto la supervisione del presidente Oscar Luigi Scalfaro.

Ma il governo Monti si caratterizza, rispetto a quelli precedenti, per un legame se possibile ancor più stretto con il Quirinale. Ancora meno rilevante, infatti, appare in esso l’appoggio delle forze politiche, e molto più marcata la componente tecnocratica, fino alla quasi totale eliminazione del peso dei partiti esistenti. La maggioranza che ha votato la fiducia al governo è amplissima e trasversale, e unisce le forze maggiori delle precedenti maggioranza e opposizione. Ma essa non ha nulla in comune con una coalizione "di larghe intese", cioè con un governo di transizione nato da un patto stipulato tra i principali partiti in seguito a cicostanze eccezionali nella vita del paese. Mai come in questo caso, nella storia dell’Italia repubblicana, la dialettica propria di una democrazia pluralista viene sospinta ai margini del gioco politico-istituzionale, sotto la spinta di un imperioso appello ai partiti a collaborare alla "salvezza nazionale" sostenendo l’azione di quello che viene presentato come un "personale specializzato", caratterizzato da competenza e dedizione al bene comune.

Tale radicale ridimensionamento del peso delle forze politiche rispetto ai governi tecnici della transizione tra "prima" e "seconda" Repubblica assume un peso ulteriore quando si consideri che negli ultimi 17 anni – esclusa, appunto, la parentesi del governo Dini tra 1995 e 1996 – si è andata consolidando in Italia una prassi politico-costituzionale bipolare, in base alla quale in misura crescente l’investitura alla carica di presidente del Consiglio è stata associata al risultato delle elezioni politiche, ed assegnata al leader della coalizione vincitrice. Rispetto a questo processo – certificato a partire dalle ultime elezioni anche dalla indicazione del candidato premier sulle schede elettorali – il fatto che l’esecutivo presieduto da Monti non tenga minimamente conto degli ultimi risultati elettorali si configura come un’inequivocabile inversione di tendenza. Che, senza dubbio, affonda le radici da una parte nel disfacimento della maggioranza di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi, dall’altra dall’evidente frammentazione ed irrilevanza delle opposizioni, apparentemente incapaci di proporre un’alternativa di governo coerente e una leadership riconosciuta. Ma che non per questo è meno significativa, e potenzialmente traumatica. 

Il Capo dello Stato non ha svolto, in questo caso, alcun ruolo né di registrazione della volontà prevalente tra le forze politiche, né di mediazione e orientamento tra diverse ipotesi prospettate da esse. Giorgio Napolitano, al contrario, fin dalle origini della crisi di governo ha dichiarato con decisione che le uniche due alternative sul tappeto erano la formazione di un esecutivo "tecnico" sostenuto da un’amplissima maggioranza o il voto anticipato, e ha lasciato chiaramente intendere di propendere per la prima soluzione. In aggiunta, egli ha proposto e sostenuto con insistenza l’attribuzione dell’incarico a Monti (immediatamente preannunciato dalla sua irrituale nomina a senatore a vita), e ha rivendicato esplicitamente la sua pressione in tal senso sulle forza politiche.

Siamo, insomma, in presenza di un’accezione estremamente estensiva dei poteri del Presidente della Repubblica nel caso di una crisi di governo, anche più di quanto sia stata fatta propria a suo tempo dal presidente Scalfaro, e tale da configurare ormai, per molti versi, il Quirinale come la sede primaria del potere eseecutivo: in una logica che di fatto ricorda molto da vicino un regime semi-presidenzialista piuttosto che un regime parlamentare. Con la notevole differenza, però, che in un assetto semi-presidenziale come quello della Quinta Repubblica francese il Presidente viene legittimato dall’elezione popolare a suffragio universale.

Chi continua ad affermare che Napolitano ha osservato scrupolosamente, in questo frangente, le norme costituzionali vigenti rifiuta di ammettere (in buona o cattiva fede) l’esistenza di un evidente problema di equilibri costituzionali. E’ noto che gli articoli della Costituzione repubblicana concernenti il ruolo del Capo dello Stato sono estremamente vaghi, e che l’interpretazione di essi ha dato origine ad una prassi non univoca, in costante evoluzione nel tempo, che ha oscillato tra presidenti della Repubblica rigorosamente "notarili" ed altri decisamente "interventisti". Ma con la formazione dell’attuale esecutivo si è giunti ad un punto estremo di incompatibilità tra il protagonismo politico rivendicato dal Quirinale e l’assetto parlamentarista pensato per la nostra democrazia dai padri costituenti.

Di fronte a questa contraddizione, a questo "punto di non ritorno" costituzionale, sono possibili da parte delle forze politiche soltanto due soluzioni. La prima consisterebbe nel riconoscere il fatto che il Capo dello Stato è divenuto il titolare effettivo del potere di governo, e conseguentemente nel modificare di comune accordo la Costituzione del 1948 introducendo un regime semi-presidenziale, e affidando agli elettori l’elezione diretta del presidente. La seconda consisterebbe all’inverso nel rafforzare, contro la tendenza al presidenzialismo "di fatto", la struttura parlamentarista della nostra democrazia, conformemente alla sua evoluzione nel senso del "governo del premier" e del bipolarismo manifestatasi nella "seconda Repubblica". Anche in questa seconda direzione, sarebbe comunque necessaria un’importante modifica della Costituzione, che definisse inequivocabilmente i rapporti tra Capo dello Stato e presidente del Consiglio: con l’attribuzione a quest’ultimo, in particolare, della facoltà di sciogliere le Camere, secondo la prassi del parlamentarismo britannico. 

Va rimarcato, in tal senso, che se una norma siffatta fosse stata in vigore nella presente legislatura, probabilmente l’evoluzione degli equilibri di governo negli ultimi anni sarebbe stata decisamente diversa. Infatti la crisi politica della maggioranza berlusconiana (a parte l’indebolimento e la delegittimazione del premier operata dalla pressione giudiziaria/mediatica) è cominciata ufficialmente nell’estate del 2010, con la scissione dal Popolo della Libertà della frazione che faceva capo a Gianfranco Fini. Nella logica di un parlamentarismo rigorosamente legato all’investitura elettorale dei governi, Berlusconi avrebbe preso atto del venir meno della maggioranza uscita dalle urne e si sarebbe dimesso, e da queste dimissioni sarebbero seguiti automaticamente lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate. In questo modo, nell’autunno 2010 avremmo avuto un nuovo governo pienamente legittimato dal voto popolare, e forse oggi l’esecutivo (quale che fosse la sua tendenza politica e composizione) avrebbe avuto ben altra forza di promuovere una politica organica e coerente rispetto all’emergenza economico-finanziaria internazionale.

Ma, ancor più, si può dire che se vigesse la facoltà, da parte del presidente del Consiglio, di sciogliere le Camere gran parte delle crisi interne alle coalizioni di governo non si verificherebbero affatto, o quanto meno non giungerebbero alle estreme conseguenze. Infatti, la costante possibilità di essere sottoposti al giudizio degli elettori per la loro condotta e l’eventualità di perdere anticipatamente la poltrona parlamentare scoraggerebbero decisamente le frange dissidenti delle maggioranze dal portare avanti manovre destabilizzatrici. All’inverso, proprio la speranza di poter conservare il seggio parlamentare, in mancanza di un chiaro potere di scioglimento in mano al capo del governo investito dal voto popolare favorisce una costante tendenza al trasformismo e, come nel caso dell’ultimo governo Berlusconi, a smottamenti parlamentari (in un senso o nell’altro) motivati esclusivamente proprio dalla volontà degli eletti di evitare il voto anticipato: con gravissime conseguenze in termini di paralisi del potere esecutivo e di disprezzo per la volontà degli elettori.

Insomma, per risolvere quella che è, a mio avviso, una crisi costituzionale senza precedenti nella storia dell’Italia repubblicana si deve necessariamente correggere ed interpretare la Carta o in un senso apertamente presidenzialista, oppure in un’accezione parlamentarista "di gabinetto". In alternativa, si potrebbe persino sostenere che è preferibile tornare alla prassi del parlamentarismo della "prima Repubblica", con un ruolo sostanzialmente notarile del Capo dello Stato rispetto agli accordi tra i partiti presenti in Parlamento.

Soltanto una cosa non è lecito fare: ignorare la gravità del problema, e lasciare che, dopo il precedente segnato dal governo Monti, si consolidi la tendenza ad un surrettizio presidenzialismo senza legittimazione democratica, con i fortissimi rischi che esso comporta di una crescente espropriazione della democrazia da parte di élite oligarchico-tecnocratiche.