Morales si gioca tutto al referendum. Chavez teme di perdere un alleato
09 Agosto 2008
Due morti e 38 feriti in una rivolta di minatori; una sommossa che ha impedito di sbarcare in Bolivia al presidente venezuelano Hugo Chávez e all’argentina Cristina Kirchner; 1000 autorità locali e leader dell’opposizione in sciopero della fame; un misterioso attentato all’auto che avrebbe dovuto portare un ministro… È una Bolivia in fiamme quella che va ai referendum revocatori che domenica decideranno sulla permanenza in carica del presidente Evo Morales, del vicepresidente Álvaro García Linera e di otto dei nove prefetti di dipartimento. Sei dei quali dell’opposizione, ed è d’opposizione anche la nona: Savina Cuéllar, esclusa dalla consultazione perché appena eletta prefetto di Chiquisaca, il 29 giugno, dopo le dimissioni del suo predecessore.
Quattro di questi dipartimenti tra il 4 maggio e il 22 giugno hanno approvato con referendum degli statuti di ampia devolution ispirata al modello catalano, e che pur di sottrarre le ricche risorse locali alle mire del “socialismo del XXI secolo” ispirato a Morales da Chávez arrivano ad agitare il fantasma del separatismo. Ha iniziato il 4 maggio Santa Cruz: una sorta di “Padania boliviana” nei bassopiani orientali che rappresenta un terzo del territorio e un quarto della popolazione del Paese, ma che con la sua agroindustria di tipo argentino e le sue miniere di ferro ne produce il 30,63 per cento del Pil e il 50,7 per cento dell’export, vi fa entrare il 62 per cento della valuta estera e paga il 48,5 per cento delle tasse. Poi, il primo giugno, si sono aggiunti i dipartimenti amazzonici di Beni e Pando. E infine il 22 giugno ha deciso la sua devolution anche il dipartimento meridionale di Tarija, da cui proviene l’85 per cento degli idrocarburi boliviani.
È stato appunto per controbattere l’effetto di questi referendum, da lui definiti “illegali” che Morales ha indetto questi referendum. E i sondaggi gli darebbero ragione, prospettando una conferma col 59 per cento dei voti. Ma la spaccatura dell’opposizione invece di rendergli la vita più facile gliela ha complicata. Il partito Podemos (Potere Democratico e Sociale) dell’ex-presidente Jorge Quiroga, principale forza anti-Morales al Congresso, ha infatti appoggiato i referendum, rendendoli anzi possibili grazie al suo voto determinante in Senato, dove il partito di Morales Mas (Movimento al Socialismo) non ha la maggioranza.
Ma i prefetti hanno invece subito avversato la clausola della legge sul referendum che prescrive l’obbligo di dimissioni se si avrà un voto in più di quelli con cui l’eletto è stato investito: e mentre il presidente aveva infatti avuto il 53,7 per cento dei voti, loro oscillavano tra il 38 e il 48 per cento. Da ciò è partito un ricorso che ha portato la Corte Costituzionale a dichiarare il referendum incostituzionale: un pronunciamento invero curioso, se si considera che la giudice Silvia Salame l’ha preso da sola, dopo che i suoi quattro colleghi si erano dimessi l’uno dopo l’altro. E la Corte Nazionale Elettorale ha dunque deciso un compromesso, in base al quale Morales e il suo vice continueranno a godere della blindatura del 53,7 per cento, ma per obbligare i prefetti ad andarsene ci vorrà il 50 per cento più uno di voti contrari. García Linera ha però preannunciato che non è d’accordo su questa via di mezzo che finirebbe per rendere il voto del tutto inutile, visto che presumibilmente rimarrebbero al potere sia Morales che i prefetti, continuando il braccio di ferro che sta paralizzando il Paese. E anche il governatore di Cochabamba Manfred Reyes Villa ha detto che lui non ci sta, e non emetterà il suo voto. Insomma, si vota, ma non si sa ancora chi e come accetterà il risultato.
Poi, proprio il fatto che non è riuscito a emergere sul piano nazionale un progetto alternativo in grado di sfidare il carisma del primo indigeno presidente di Bolivia ha provocato un’esplosione di rivendicazioni localiste e settoriali. Morales è riuscito a rispondervi solo facendo ricorso a un tipo di retorica vittimista e complottista che ha ancora di più esasperato gli animi. E così si sono create le premesse per un caos con cui anche gli attuali oppositori di Morales se riuscissero ad andare al potere farebbero fatica a venire a capo. Quella rivolta che a quattro giorni dal referendum si è scatenata con morti e feriti a Caihuasi, Dipartimento di Oruro, riguarda infatti uno dei due soli dipartimenti dove è al potere il partito di Morales, ed è venuta per la protesta di un sindacato di minatori: un settore sociale tradizionalmente collocabile all’estrema sinistra. E pure nella tradizione dell’estrema sinistra sindacale boliviana era la minaccia dei 4000 manifestanti di far saltare in aria un ponte con la dinamite, per protestare contro una riforma pensionistica che secondo loro toglieva fondi al loro sistema previdenziale. Il sangue è scorso quando la polizia ha cercato di impedirlo. All’aereoporto di Tarija sono stati invece i comitati civici dell’opposizione a mandare militanti armati di pietre e bastoni a occupare l’aereoporto, per impedire l’atterraggio di Chávez e della Kirchner, oltre che dello stesso Morales, cui erano venuti a offrire “solidarietà” proprio in vista della giornata referendaria di domenica, oltre che per firmare accordi in campo energetico.
Da notare che il giorno prima a Morales era stato impedito di recarsi a Sucre, dove il governo dipartimentale della Cuéllar gli ha imposato addirittura di “chiedere scusa” per i tre morti nella repressione di una protesta, nel novembre del 2007. Sucre, già capitale della Bolivia nel XIX secolo prima del trasferimento a La Paz, si è infuriata con Morales da quando il Mas ha rifiutato la richiesta di ripristinarvi la sede delle istituzioni nazionali. Mentre lo sciopero della fame dei 1000 oppositori, allo stesso modo della protesta di Tarija, erano per richiedere la restituzione alle autorità locali del gettito delle imposte sul gas. Sono ora annunciati anche uno sciopero della fame di portatori di handicap ed uno sciopero generale a oltranza dei maestri di La Paz. Dulcis in fundo, il veicolo assegnato al ministro della Presidenza Juan Ramón Quintana in visita a Trinidad, capoluogo del dipartimento “ribelle” di Beni, è stato bersaglio di misteriosi spari, mentre il ministro stesso stava in riunione con i comandi militari locali.
“Stanno tentando di far fallire il referendum”, denuncia ora il governo, mentre Morales in persona attacca gli “antipatria”: “i piccoli gruppi di privilegiati che si oppongono a questo processo di cambio e non vogliono l’eguaglianza tra i boliviani”. “Il governo ha attuato al miglior stile dei governi dittatoriali e fascisti. C’è stato un massacro e il solo responsabile è Evo Morales”, ribatte la Centrale Obrera Boliviana: una Cgil boliviana che dopo aver appoggiato il leader cocalero gli è ora passata risolutamente contro.