Mosca segna un punto in Kirghizistan ma Washington non resta a guardare

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Mosca segna un punto in Kirghizistan ma Washington non resta a guardare

28 Febbraio 2009

Il 20 febbraio, il presidente kirghizo Bakiyev ha firmato un provvedimento legislativo che decreta la chiusura della base aerea di Manas, utilizzata fin dal 2001 dagli americani per il transito mensile di 15 mila uomini e circa 500 tonnellate di merci da e verso l’Afghanistan. All’avvio della guerra globale al terrorismo, fortemente condivisa dalle Repubbliche centroasiatiche, anche un’altra base era stata destinata al rifornimento delle truppe americane, quella uzbeka di Karshi-Kanhabad (K2), il cui utilizzo cessò nel 2005, in seguito al dissidio sorto tra autorità locali e USA, per le pesanti critiche avanzate sulla condotta del regime in occasione dei fatti di Andijan. In quel caso, una manovra auto conservativa determinò la scelta di punire l’invadenza politica degli ospiti americani, privandoli di un punto di appoggio sicuro a due passi dalla frontiera afgana. In quest’altro caso, invece, la storia, che ha come protagonisti la Russia, il Kirghizistan e, sorprendentemente, il Tagikistan, si compone degli interessi geopolitici di una potenza regionale antica e sempre presente, di occasioni mancate e di altre che potrebbero essere colte al volo.

Benché nel Paese l’immagine degli americani fosse in declino da tempo, complici una martellante campagna mediatica sull’inquinamento prodotto dal traffico aereo della base (curiosamente non si è mai accennato a problemi ambientali riguardo a Kant, la base aerea kirghiza utilizzata dai russi…) e, soprattutto, lo sgomento per l’uccisione di un civile per mano di un militare americano, non è casuale la coincidenza temporale dell’annuncio della chiusura di Manas, con i due vertici straordinari di EurAsEc e CSTO, celebrati a Mosca il 4 e 5 febbraio. Infatti, proprio a margine di tali summit, il presidente Bakiyev ha reso nota la propria decisione sulle sorti della base, spiegando in conferenza stampa che, al di là della profonda condivisione dell’obiettivo della lotta al terrorismo e della normalizzazione dell’Afghanistan, vi sono due buchi neri nella prolungata presenza americana in Kirghizistan.

Il primo è dato da quella che egli ha chiamato mancanza di “compensazioni”, ossia lo scarsissimo ritorno economico prodotto dalla permanenza USA nel Paese. Dalle poche decine di milioni di dollari dei primi anni, in seguito alla rinegoziazione del canone d’affitto avvenuta nel 2005 (speculando proprio sulla perdita di K2 da parte americana), il Kirghizistan ha percepito annualmente 63 milioni di dollari per l’utilizzo della base, più 150 milioni in aiuti di vario genere. La perdita di tale rendita annua appare oggi poca cosa dinanzi agli accordi economici che Bakiyev ha portato a casa da Mosca ed alla possibilità di poter comunque negoziare un canone d’affitto maggiorato già nei 180 giorni di vacatio legis del provvedimento di chiusura. I cospicui aiuti russi sono riassumibili in un credito di due miliardi di dollari, articolato in una sovvenzione non rimborsabile di 150 milioni, un prestito di 300 milioni rimborsabile in 40 anni ed una serie di altri prestiti per la quota rimanente, più la cancellazione di una parte del debito, in cambio di partecipazioni nell’industria locale e 1,7 miliardi di dollari che la Russia investirà nella costruzione della centrale elettrica kirghiza di Kambarata-1. L’altra ragione della rottura con gli Stati Uniti è data dall’uccisione di un civile kirghizo, per mano di un militare della base di Manas, per la quale era stata garantita da parte americana un’implacabile giustizia che, a più di due anni dall’evento, non c’è ancora stata.

A fronte dell’occasione mancata da parte del Kirghizistan, che dal 2001 non si è mai esposto per avviare un rapporto di cooperazione più strutturato e vantaggioso con gli americani, per un’altra Repubblica centroasiatica si profila la possibilità di riscattare il negletto profilo regionale al quale finora è stata relegata. Si tratta del Tagikistan. Negli ultimi mesi, la Repubblica che più ha sofferto dalla caduta dell’Unione Sovietica ha, infatti, ridimensionato la propria attitudine filorussa. La sanguinosa guerra civile che aveva dilaniato il Paese tra il 1992 ed il 1997, vide il fronteggiarsi di fazioni di ispirazione islamica contro altre comuniste. Il prevalere di queste ultime, grazie al decisivo impegno di Mosca per la pacificazione e per l’ascesa del presidente ancora in carica, Enomali Rakhmon, ha rafforzato un legame tradizionale con la vecchia madrepatria politica che non si è mai incrinato, fino a quando, recentemente, il Tagikistan si è sentito tradito proprio dalla Russia nella tutela dei propri interessi nazionali.

Per inquadrare i termini della questione, occorre premettere che la piccola e svantaggiata Repubblica centroasiatica, che ha un territorio montuoso arabile solo per il 7%, è anche la meno dotata di risorse energetiche. Un tempo questa carenza veniva colmata da opportuni meccanismi di compensazione messi in atto dall’Unione Sovietica, in virtù dei quali Paesi che abbondavano di una risorsa ne rifornivano quelli che ne erano carenti, ricevendo in cambio altro di cui avevano bisogno. Il Tagikistan, quindi, riceveva gas e petrolio dai suoi vicini, fornendo, in compensazione, l’unica risorsa di cui è ricco: l’acqua. Con la fine dell’Unione Sovietica, sono venuti meno anche tali meccanismi di compensazione, pur non essendo venuta meno l’esigenza energetica da parte del Tagikistan né quella idrica da parte di Uzbekistan e Turkmenistan, i principali beneficiari a valle delle acque dei maggiori fiumi della regione (Amu Darya e Syr Darya) che hanno origine dalle elevate catene montuose tagike (e kirghize). Pertanto, detenendo un’ingente quantità di acqua, il Tagikistan si trova nella paradossale condizione di potersi avvalere in potenza di una visibilità e di un ruolo da protagonista regionale che nella realtà la propria debolezza economica e politica non gli consente di rivestire.

Proprio un recente, ennesimo dissidio bilaterale relativo alla costruzione di una diga, che avrebbe minacciato l’irrigazione dei campi uzbeki, è stato la causa di un temporaneo raffreddamento nelle relazioni con Mosca. Infatti, a fine gennaio, al culmine della crisi, mentre l’Uzbekistan impediva il transito di energia elettrica dal Turkmenistan verso il Tagikistan, Medvedev volava a Tashkent per stipulare accordi in campo energetico. Rakhmon lo ha interpretato come un vero e proprio oltraggio ai propri interessi nazionali, un oltraggio tanto grave che, per rappresaglia, ha disdetto all’ultimo momento la propria partecipazione al duplice Vertice EurAsEc e CSTO, facendo seguire il 10 e l’11 febbraio due intensi giorni di colloqui a Bruxelles presso l’UE e, soprattutto, la NATO. Già il 6 febbraio Rakhmon si era reso disponibile a concedere lo spazio aereo tagiko per i rifornimenti non militari alle truppe impegnate in Afghanistan ed il suo viaggio non ha fatto altro che confermare e suggellare l’intenzione di sostenere gli sforzi della coalizione internazionale. Con i suoi 1335 chilometri di confine condiviso con l’Afghanistan ed una cospicua popolazione tagika residente su ambo i lati della frontiera, il Paese si candida ad uscire dall’anonimato, offrendo un avamposto unico nelle immediate vicinanze del teatro afgano. Il chiaro impegno espresso in tal senso sarà difficilmente alterabile dalla recente pacificazione con l’Uzbekistan, con il quale, il 19 febbraio, grazie ai buoni uffici della Russia, il Tagikistan ha firmato un accordo che regola l’afflusso di energia elettrica nel Paese e stabilisce un nuovo calendario per la restituzione di un debito bilaterale da parte tagika di 16 milioni di dollari.

Una verosimile interpretazione di quanto accaduto circa la base di Manas può forse provenire dall’atteggiamento kirghizo, piuttosto che da quello russo: mentre un intralcio alla capacità operativa americana nella regione potrebbe essere stata interpretata da Bakyev come un utile strumento per lucrare ulteriormente sull’affitto e sugli aiuti (proprio ora che Obama ha annunciato l’invio di altri 17 mila uomini in Afghanistan), per Mosca, invece, ogni difficoltà della coalizione implica il dover potenzialmente colmare un vuoto di sicurezza che, per quanto dichiari, non è probabilmente in grado di sostenere da sola. D’altro canto, sia la Russia che le Repubbliche centroasiatiche si sono rese disponibili per il transito di rifornimenti a sostegno dello sforzo in Afghanistan, segno della consapevolezza di quanto sia necessaria la presenza della NATO e degli americani nella regione.

Alla luce di queste considerazioni può anche essere ridimensionato il peso specifico delle annunciate iniziative regionali per la sicurezza, quali il varo di una forza di intervento rapido da parte della CSTO ed una specifica conferenza sull’Afghanistan annunciata dalla SCO per la fine di marzo, poiché gravano pesanti dubbi sulla efficacia che potrebbero avere azioni prive di coordinamento con l’impegno occidentale già in atto in Afghanistan.