“Mozzate il naso e le dita a chi è andato a votare”

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“Mozzate il naso e le dita a chi è andato a votare”

11 Settembre 2009

Afganistan, montagne dell’Oruzgan. E’ il 20 agosto e Lal Mohammad si rivolge verso la Mecca per le preghiere del mattino. Poi va nei campi perché, se vuoi sfamare tua moglie e i nove figli, non hai tempo da perdere. Verso le nove del mattino, Lal si dirige verso il villaggio di Shiran, a un’ora e mezza di cammino  dalla sua casa. E’ il giorno delle elezioni in Afghanistan.

Lal Mohammad è analfabeta ma vuole votare come i suoi compaesani. Parlando con loro ha compreso di avere questo diritto, nonostante sia povero e senza istruzione. Durante il percorso, però, Lal incontra tre giovani dalla lunga barba e dai turbanti bianchi, armati di kalashinikov. “Dove  vao”, gli chiede uno a brutto muso; “Scendo a Shiran”, risponde lui. Lo accerchiano e lo perquisiscono. Quando trovano il certificato elettorale danno di matto e iniziano a prenderlo a pugni e a picchiarlo con il calcio del fucile finché sviene.

Quando riprende i sensi, Lal si accorge che i bravi sono spariti ma si accorge di avere il volto coperto di sangue. I talebani gli hanno mozzato il naso e le orecchie con un pugnale. “Non erano briganti,perché non mi è stato rubato nulla” racconta al quotidiano francese “Le Figaro”. Ha la voce flebile, è steso sul letto di chirurgia plastica dell’ospedale Maiwand di Kabul. I medici hanno accettato di lasciar passare il giornalista di Le Figaro perché il pronto soccorso beneficia dell’aiuto tecnico e finanziario di La Chain de l’espoir, una ONG francese presieduta da Padre Deloche.

Con il viso coperto di bende, Lal è troppo provato per proseguire il racconto del suo calvario. E’ un suo parente a raccontare com’è finita quella terribile giornata. Dopo l’incontro con i Talebani, barcollando, Lal arriva al villaggio. Un negoziante lo ripulisce e gli offre da bere. Suo zio gli consiglia di andarsi a farsi curare a Kabul (300 km a est in linea d’aria). Dopo essersi fatto fare un prestito dall’usuraio del villaggio, Lal e lo zio viaggiano in montagna e dopo tre lunghi giorni raggiungono un ospedale a Kabul. 

Lal viene operato ma soffre moralmente oltre che fisicamente e adesso si chiede “Cosa succederà alla mia famiglia – sospira – è impossibile chi possa tornare a casa, mi ucciderebbero. Come farò a restituire i soldi presi a usura? Il governo mi aiuterà, farà venire qui la mia famiglia?”. Ormai è disperato.

Nelle campagne a sud dell’Afghanistan, i Talebani si muovono praticamente senza ostacoli. Per far circolare i loro avvertimenti basta colpire qualche contadino a mo’ di avvertimento. In un paese dove regna ancora la cultura orale, e dove il passaparola è molto efficace, messaggi del genere ottengono il loro effetto.

“Se avessi saputo quello che mi sarebbe successo non sarei andato a votare. Ma la tentazione era troppo forte: io,un povero agricoltore, chiamato a scegliere il nuovo capo del Paese!”, dice. Il giornalista gli chiede perché non ha portato con sé anche la moglie: “Dove abitiamo noi la donne non si occupano di politica”, risponde. Aggiunge di essere andato a votare perché dalle sue parti i Talebani non sono molto presenti, ma lì vicino, in un distretto a due passi, l’amministrazione è nelle mani dei Talebani: “i giudici, il capo della polizia, il vice governatore, tutti!”.