Napolitano, molta retorica e poche proposte nel richiamo sull’università
24 Febbraio 2009
E ancora: chi sarà mai che si propone di non "salvaguardare, potenziare, valorizzare le risorse di capitale umano e di sapere, evitando la dispersione di talenti e risultati troppo spesso sottovalutati"? O che si abbandona a "generalizzazioni negative e liquidatorie che mettono a rischio la ricerca e l’università" adottando la politica e la logica "dei tagli indiscriminati".
A meno che non intendesse lanciare una critica indiretta all’attuale ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Scientifica, Mariastella Gelmini, che infatti ha immediatamente risposto al monito del Presidente della Repubblica (con la solita pacatezza di toni e precisione di argomentazioni), quello di Napolitano è stato un puro esercizio retorico. Sicuramente armato di tutte le più buone intenzioni, il Presidente non ci ha purtroppo detto niente che già non sapessimo e su cui non fossimo tutti già pienamente d’accordo, come dimostra peraltro il plauso raccolto a piene mani da governo e opposizione.
Forse l’unica indicazione di merito dell’intervento di Napolitano potrebbe essere quella di guardare "ai singoli atenei in base ai risultati". Una tale affermazione avrebbe forse fatto scalpore fino a qualche anno fa, quando il fronte unito dell’intelligentsia universitaria (di sinistra nella grande maggioranza) non perdeva occasione di ribadire solennemente che non dovevano esserci "atenei di serie A e atenei di serie B", che tutte le sedi avevano la stessa dignità, tutti e trenta erano uguali e tutti i diplomi di laurea avevano lo stesso valore. Ma adesso, chi è che osa ormai dire che le università non vanno valutate per i risultati che producono?
Come sanno tutti coloro che frequentano il mondo dell’università e della ricerca, sono mesi, per non dire anni, che gli atenei e gli istituti di ricerca sono diventati una sorta di Bar Sport in cui quei non pochi studiosi e ricercatori che non sono scappati al’estero e che hanno ancora voglia di guardare al futuro dibattono dell’assetto ideale del nuovo mondo universitario e propongono soluzioni ai problemi di sempre.
Se non siamo più al parossismo burocratico-quinquennalista del ministro Fabio Mussi, per fortuna durato il breve spazio di un governo senza arte né parte, resta purtroppo ancora prevalente quell’impostazione ultraregolamentista per cui le soluzioni ai mali del mondo dell’insegnamento, dello studio e della ricerca stanno nel trovare le ricette magiche per come mettere in piedi le commissioni di concorso, stabilire l’età massima dei partecipanti a un progetto di ricerca, decidere se il riscatto degli anni dell’università contribuiscano a decidere se si può prepensionare un ricercatore, o stilare la classifica di merito delle riviste scientifiche del mondo occidentale intiero per affibbiare punteggi agli studiosi o determinarne la produttività.
Personalmente, resto sempre più convinto che il primo passo davvero rivoluzionario sarebbe quello dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio dell’insegnamento superiore, anche se soltanto di primo passo si tratterà. (Del resto, quando è stata abolita la monarchia l’Italia ha fatto un bel passo avanti, anche se tale passo non ha certo risolto tutti i suoi problemi.) E resto anche convinto che l’obiettivo ideale e finale di un ministro dell’Università e della Ricerca dovrebbe essere l’abolizione del suo stesso ministero e il trasferimento di ogni responsabilità ai singoli atenei, in base al principio dell’accountability (responsabilità). Ma non vorrei a mia volta fomentare il cicaleccio da Bar Sport dei colleghi universitari e sono pronto ad ascoltare le proposte del ministro Gelmini, che finora, mi sembra, vadano comunque nella direzione giusta.
Purtroppo di tutto questo dibattito non si trova traccia nell’intervento di Napolitano a Perugia. Insomma, o il Presidente della Repubblica intendeva far capire che la sua era una critica all’operato del ministro (e del suo Governo), critica che istituzionalmente non poteva fare in maniera diretta, oppure ha davvero perso un’occasione per uscire dalla retorica così tipica della sua altissima carica.