NATO, il rilancio all’orizzonte…aspettando Kiev
25 Luglio 2023
di Michele Ceci
Quando Bill Clinton, dopo il 1990, decise di mantenerne intatta la struttura e di farne il perno dell’interventismo umanitario, non pochi furono i cavalli di razza delle relazioni internazionali a insorgere. Vent’anni dopo, vollero le urne che fosse Donald Trump a mettere sul piatto un tema spinoso ma decisivo: come assicurare la perennità dell’alleanza senza che tutti i membri facciano la loro parte? Uscita dai radar schizofrenici dell’opinione pubblica nel corso dell’ultimo decennio, la NATO è tornata a riscuotere un ruolo centrale nelle cronache in concomitanza con la guerra in Ucraina.
In linea con le posizioni emerse nel precedente vertice di Madrid del 2022, il recente summit di Vilnius sembra aver tratteggiato alcune risposte salienti circa i destini dell’alleanza militare più potente, longeva e ammirata al mondo. Sullo sfondo, un obiettivo di medio termine: l’allargamento all’Ucraina, tanto caldeggiato da Volodymir Zelensky ma dissipato – perlomeno nelle tempistiche – dalle valutazioni realiste di molti leader, in testa ai quali spicca proprio Joe Biden.
Dovendo rispondere alla richiesta di individuare l’evento chiave, caratterizzante del vertice NATO di Vilnius, risulterebbe quasi fisiologico indicare la stretta di mano fra Ulf Kristersson, Ministro di Stato del Regno di Svezia, e Recep Tayip Erdogan, Presidente della Turchia, “mediata” dal segretario generale della NATO Jens Stoltenberg. Non s’è resa necessaria che una fase interlocutoria della durata di alcune ore, arbitrata da Stoltenberg in persona, per sanzionare il primo cedimento della “politica del pendolo” del Capo di Stato turco. Molte precondizioni imposte da Ankara in cambio della disponibilità alla ratifica – su tutte, la garanzia delle forniture americane di aerei F16, tanto indigesta alla Grecia – andranno verosimilmente a porre non pochi problemi nei mesi a venire, ma – nell’immediato – la caduta del veto di Ankara sull’ingresso della Svezia nel braccio militare del Patto Atlantico rimane un risultato considerevole delle maestranze diplomatiche. Erdogan, il cui comportamento ha lasciato a più riprese aperti interrogativi sulla permanenza a lungo termine della Turchia nella NATO, ha fatto propria tutta una serie di congegni retorici i quali, più che trasferire i crismi di una potenza autonoma, riportano al pensiero certi scellerati ghiribizzi di politica estera esibiti dall’Italia di Mussolini nei primi anni Trenta. Il rientro dei capi di Azov in Ucraina, avallato dal Presidente turco, è la risposta diretta al ricatto russo sull’accordo per il transito dei beni agrari ucraini, che tanto aveva profittato all’immagine diplomatica della Turchia. Nella stessa logica ricade il surreale baratto di un nulla osta alla Svezia con una riapertura degli spiragli diplomatici dell’Unione Europea, abbozzato da Erdogan in un punto stampa.
Vilnius e le nove sfide
Ai molti profani che osservano e commentano le vicende internazionali nel grande “tribunale sociale” che è l’opinione pubblica, le uscite del leader neo-ottomano appaiono tanto irricevibili da suggerire spesso previsioni decisamente azzardate, giacché nessuno è in grado di immaginare cosa potrebbe diventare la NATO se disertata dall’unico Paese islamico – e in misura di presidiare parzialmente la regione mediorientale – che ne fa parte. In realtà, il summit di Vilnius, nel solco di quanto emerso dalla precedente edizione di Madrid, ha meritoriamente segnalato un tentativo di indebolire diversi nodi problematici sfruttati da esperti che hanno avuto buon gioco a descrivere in passato l’Alleanza Atlantica come una coalizione dall’encefalogramma piatto, sostenuta quasi interamente dagli USA per colpevole indolenza degli Alleati europei, ancora ebbri delle utopie di pace perpetua. Le prospettive di allargamento si inseriscono sicuramente fra i principali parametri per stimare la salute di un’alleanza che può oggi ritenersi al centro dello scacchiere politico-internazionale, ma non senza alcune riserve, utili per riadattare diversi assetti a un contesto radicalmente mutato, a partire dalla frammentazione geografica che di esso è tratto distintivo. “L’area Euro-Atlantica non è in sicurezza” sottolineava già, nella sua più recente edizione di fine 2022, il NATO Strategic Concept. Con un messaggio da leggere fra le righe: l’alleanza è prima di tutto simmachia, promessa esplicita di “combattere insieme” in qualsiasi circostanza si renda inevitabile farlo.
Niente di nuovo sul fronte orientale
Malgrado la minaccia russa infuri almeno dal 2014 sulla regione euro-orientale, disgraziatamente, i progetti annunciati da Jens Stoltenberg a Madrid per la costituzione di una “forza d’intervento rapido” sul fianco Est non hanno ancora ricevuto alcun impulso, per ragioni riconducibili essenzialmente allo stato di impreparazione e sottoequipaggiamento delle Forze Armate di molti Paesi membri, con effettivi spesso inferiori alle 30 mila unità. Germania e Polonia, i due Paesi più vitalmente interessati a un ambiente di sicurezza che richiamerebbe in gioco il citatissimo articolo 5 del Trattato NATO, sono anche gli unici due a poter disporre oggi delle risorse logistiche adeguate a contribuire alla creazione di un corpo armato che implicherebbe lo spiegamento progressivo di almeno 300 mila uomini ben addestrati. Paradossalmente, come nota Le Monde, è proprio la Bundeswehr a sfoggiare un potenziale inedito, che testimonia se non altro una volontà di riscatto rispetto alle umilianti prestazioni collezionate in passato dalle Forze Armate tedesche. Per assurdo, sconcerta allora che, ai blocchi di partenza per la successione a Jens Stoltenberg figuri, fra gli altri, Ursula Von der Leyen, Presidente della Commissione Europea con mandato in scadenza, ma soprattutto ex Ministro della Difesa di Angela Merkel. Ancorché ipotetico e non confermato dalla diretta interessata per ovvie ragioni di contegno, l’interesse di Von der Leyen per una carica così delicata – eventualmente supportato anche da Stoltenberg, confermato per un solo anno nelle sue funzioni – non rasserena gli animi, dal momento che proprio a costei sono imputabili le ristrettezze imposte ai militari tedeschi negli ultimi anni. Poco importa, diranno i realisti: il ruolo del Segretario generale ha prerogative massimamente cerimoniali. Ciò non toglie che le premesse non siano delle più promettenti.
Teatri di crisi reali o potenziali
Le “zone franche” soggette a situazioni di rischio reale o potenziale – e dunque attenzionate dagli esperti di crisis management dell’Alleanza – si estendono però molto al di là dei confini europei. Per quanto esterne al raggio d’azione dell’articolo 5, non cessano di destare preoccupazioni gli equilibri precari dei Paesi MENA (Middle East and North Africa) e il perimetro variabile del “Mediterraneo allargato”, due “polmoni” degli interessi strategici di Paesi militarmente non autonomi quali Italia e Spagna. A qualche migliaio di chilometri subentra poi l’Indo-Pacifico, la “regione proibita” dove da un quinquennio cade la lancetta della bussola geostrategica americana. E dove, senza troppi mezzi termini, gli Stati Uniti gradirebbero anche un supporto europeo, almeno nella costruzione del “cordone di contenimento” della Cina comunista. Parlare di allargamento della NATO al “nuovo baricentro” della politica internazionale – Australia, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda – rischia di rivelarsi cosa inaccurata e frettolosa, non foss’altro per la trasformazione strutturale che ciò comporterebbe. D’altra parte, la nuova ventata di predilezione per l’azione multilaterale promossa dall’amministrazione Biden suscita tanto entusiasmo da riesumare nientepopodimeno che i tempi andati della “pattomania” di John Foster Dulles, figura iconica della presidenza Eisenhower.
Un’incognita: l’ingresso di Kiev
A riconferma della volontà di rilancio dell’Alleanza spunta poi sempre una prospettiva di attualissima pertinenza: l’ingresso dell’Ucraina. Nominalmente, e sotto un profilo puramente formale, l’estensione della NATO a Kiev non dovrebbe incontrare ostacoli nella presenza di membri irriducibili. Anche per coloro i quali non guardassero favorevolmente a tale opportunità, sarebbe incongruo e imbarazzante ingaggiare un confronto su posizioni radicalmente contrarie, poiché – negli ultimi anni, fatti salvi gli sforzi profusi da alcuni Paesi nelle missioni di polizia internazionale – per molti dei suoi membri la NATO non ha rappresentato che un’agenzia di car sharing strategico, un paravento di tutti gli alibi per eludere il tema delle spese militari e il dilemma welfare/warfare in nome del consensualismo elettorale. Dinanzi a un Paese che da più di 500 giorni sta battendosi con ogni mezzo per la propria sopravvivenza, anche queste sottigliezze non sono prive di un certo peso specifico.
Certo, dal fallito golpe Wagner Putin ha incassato un colpo tutto fuorché irrisorio. La grossolana decisione di relegare agli scopi militari le navi avvistate in direzione dell’Ucraina giunge al mondo come un sintomo di crescente debolezza. L’accanimento sui prigionieri di guerra e tutte le altre misure assunte in spregio al diritto bellico già formano oggetto d’indagine. La controffensiva ucraina ha sicuramente sortito cospicui effetti, ma mancato l’elemento tattico di sorpresa che pure era lecito (e realistico) attendersi. Per gli Stati Uniti d’America, la posizione è piuttosto chiara e suffragata da valutazioni forse ciniche, ma analiticamente comprensibili: di accogliere nella NATO un Paese in guerra non si può neanche parlare. Che l’invito a far parte dell’alleanza militare occidentale costituisca la contropartita di un incentivo a negoziare non è però escludibile. Una soluzione, quest’ultima, già prospettata da Henry Kissinger in una pregevole intervista rilasciata all’Economist.
I dubbi degli Stati Uniti e le prime indiscrezioni sul “piano Burns”
Per Joe Biden, l’interrogativo è duplice: lo stato di avanzamento della controffensiva pone dei dubbi circa gli obiettivi di una soluzione accelerata al conflitto, irrinunciabile per gli Stati Uniti. Se già di per sé la politica estera è doppia per antonomasia, poiché produttiva di conseguenze anche interne, Biden stenta a far mistero del proprio timore di vedersi succedere un Presidente molto più freddo sul sostegno all’Ucraina e, in generale, sull’impegno in Europa. Monta la paura del tycoon Trump, che, nella sua sete di semplicismi, si è spinto a dire, contraddicendo sue stesse uscite del passato, che “se Putin non negoziasse”, da Presidente darebbe all’Ucraina più di quanto essa abbia mai avuto, salvo poi ricadere nella vanesia esibizione delle sue capacità di “terminare il conflitto in 24 ore”.
Nell’orizzonte ideale dell’amministrazione democratica permane certamente l’auspicio in una rapida riconquista, se non della Crimea, di tutti gli altri territori occupati. Ciononostante, materiale cartografico alla mano, diversi strateghi dell’entourage della Casa Bianca vanno convincendosi di ritenere più vicino nel tempo un collasso irreversibile dello Stato russo di un’imminente vittoria militare ucraina a 360 gradi. Più guadagna crediti, più la prima eventualità semina il terrore, come esemplificato dalla ricorrente evocazione dei pericoli di una “grande Jugoslavia” disseminata di arsenali atomici. Torna pertanto a farsi spazio nell’agenda delle cose la possibilità di un negoziato: nel corso un mai smentito “toccata e fuga” a Kiev – secondo indiscrezioni di stampa – il direttore della CIA William Burns avrebbe infatti già sondato il terreno per un compromesso fra le ineccepibili intenzioni dell’Ucraina di recuperare le zone sottratte e l’apertura di un “cessate il fuoco” con Mosca entro l’anno. Una trattativa della quale, tuttavia, non sono neanche chiare le condizioni, e che sicuramente non troverebbe un atout nell’approccio feroce, ottuso e suicida del regime di Putin. A beneficio degli Stati Uniti, un dispositivo come quello opzionato da Burns presenterebbe almeno due incipienti vantaggi: offrire all’Ucraina garanzie di protezione continuative e scongiurare in Asia orientale la contagiosa voragine che la disintegrazione politica della Russia rischierebbe di aprire, sulla scia di quanto saggiato negli anni Novanta con la guerra civile in Tagikistan.
La guerra in Ucraina e la NATO di domani
Kiev, nel frattempo, non molla. Combatte una guerra che non ha voluto, spaventosamente tradizionale e al contempo immersa nella grammatica del terrorismo. Vede nella NATO di domani il proprio futuro. All’Occidente resta l’arduo compito di propiziare al meglio, fra diplomazia e assistenza militare, le circostanze per mantenere una promessa di giustizia e solidarietà, per una volta concordi con le crude ma inderogabili esigenze di una politica strutturalmente realista. Come per primo ebbe a dire Alcide De Gasperi, di questo sogno straordinariamente concreto si è sempre alimentata l’Alleanza Atlantica, un “raggruppamento di Stati democratici capaci di reciproca solidarietà”. Dimenticarlo sarebbe cosa insolente e perlomeno indegna.