Né guelfi né ghibellini. Solo italiani a caccia d’identità
17 Febbraio 2008
L’ipotesi
ventilata in un recente (e per molti aspetti notevole) articolo di Aldo
Schiavone comparso sul quotidiano “la Repubblica” del 5 febbraio (il nostro paese
starebbe per essere sommerso da un’«ondata neo-guelfa» fomentata dalla Chiesa e
da alcuni ambienti “laici”, portatori di un’ideologia vagamente
post-maurrassiana) è l’ennesimo parto di una cultura che ha quasi
fisiologicamente bisogno di un “nemico”, contro il quale chiamare alla
vigilanza e alla mobilitazione: fingit
creditque, come si diceva nel latinetto di una volta. Ciò che soprattutto colpisce
in simili ragionamenti è tuttavia un altro aspetto: l’incapacità di comprendere
che i conflitti culturali che percorrono in questi anni la società italiana non
si svolgono più fra Stato e Chiesa (come
poteva accadere fino a un secolo fa), ma tra cittadini italiani; fra cittadini
italiani di orientamenti politici, culturali e religiosi diversi, che cercano
(tutti) di far sentire la propria voce e le proprie idee nello spazio pubblico.
Continuare a rappresentarli come l’ennesima riproposizione del canonico
conflitto Stato-Chiesa discende dalla convinzione (non esplicita, ma
fermissima) che la parte cattolica, identificata appunto con la Chiesa, sia rimasta
sostanzialmente un corpo estraneo alla società nazionale (lo Stato) e in
potenziale contrasto con essa; un po’ la rappresentante e la portavoce di una
potenza straniera. E’ proprio così? Il mondo cattolico è una sorta di ospite
nel paese Italia, che – come tutti gli ospiti – è ben accetto finché ne rispetta le “regole”?
Il
discorso di Schiavone ripropone così il problema del rapporto fra cattolicesimo
e nazione italiana. Non a caso vi viene evocato il neo-guelfismo, il movimento
che, nella fase centrale del nostro Risorgimento, con enorme (ma effimero)
successo, cercò di coniugare proprio cattolicesimo e italianità. Perché
“neo-guelfismo”? Perché l’ideale “guelfo” (Schiavone lo avverte benissimo) era
molto più antico ed era stato elaborato fra Cinque e Seicento, quando altrove
si erano appena formati i grandi Stati nazionali: «Si diceva agl’Italiani: –
Avete perduto la nazionalità e l’indipendenza, (…), non avete più la civiltà
d’una volta, siete un popolo decaduto. Ma consolatevi e pensate che, poiché il
Papa è
in Italia, se il papato è potente, questo potere si riflette sulla terra
ove risiede; avvezzatevi a considerarvi non come popolo italiano ma come il
primo de’ popoli cattolici». Sono parole di Francesco De Sanctis, ovviamente
polemiche, che tuttavia sintetizzano efficacemente lo spirito “guelfo”.
Dopo il 1843, Vincenzo Gioberti lo ricuperò e
lo rilanciò come un grande mito politico, ma finalizzandolo – questa volta – all’indipendenza nazionale: essa doveva
essere realizzata attraverso una federazione fra gli Stati della penisola e
sotto l’egida benigna del Pontefice, che se ne sarebbe fatto garante di fronte
alle potenze europee. L’elezione di Pio IX sembrò per un momento rendere plausibile questo progetto: per alcuni anni
le aspirazioni nazionali e il sentimento religioso non sembrarono più in
contrasto. L’Italia era un paese naturaliter
cattolico – questo era il nucleo ideale
del giobertismo – e non vi era possibile (né auspicabile) un qualsiasi
progresso, se non conciliandolo con quella sua tradizione.
Fu
un’operazione geniale: con essa l’abate piemontese operò un clamoroso “taglio
delle ali”, da una parte escludendo dall’opinione nazionale l’estrema destra
cattolico-legittimistica (il gesuitismo), dall’altra l’estrema sinistra
rivoluzionaria (le sette). Quelle della grande stagione del moderatismo, alla
vigilia del 1848, furono veramente le “giornate del nostro riscatto”, perché il
mito neo-guelfo (fatto assai raro nella vita italiana) intendeva avere effetti
inclusivi, non divisivi, e formare un vasto fronte patriottico-nazionale, in
seguito non più realizzato. Sappiamo come andò a finire: l’allocuzione
pontificia del 29 aprile 1848, la fuga di Pio IX da Roma, la repubblica romana
segnarono la fine del sogno. Poi si ebbero, da una parte, le leggi Siccardi,
quella sui conventi, le irregolarità elettorali del 1857, l’invasione
dell’Umbria e delle Marche in spregio a ogni diritto internazionale (lo
scriveva lo stesso Cavour), la liquidazione dell’asse ecclesiastico, la presa
di Roma; dall’altra le scomuniche, la negazione dei sacramenti ai moribondi, i non possumus, il Sillabo, Mentana, il non expedit.
Insomma,
l’unità d’Italia (di una nazione che era stata considerata, fino a qualche anno
prima, naturaliter cattolica) avvenne
invece contro la Chiesa. Lo si ripete spesso, ma
non sempre se ne tengono presenti fino in fondo le conseguenze: la scarsa
legittimazione del nuovo Stato, l’impossibilità di un partito cattolico-conservatore
che potesse garantire un vasto consenso alla nuova classe dirigente, curandola
da quella paranoia istituzionale che fu alla base delle sue non infrequenti
tentazioni autoritarie. Soprattutto il bisogno di promuovere un processo di
“nazionalizzazione” privo di ogni contenuto cattolico, ma che rispondesse alla
sfida di quella tradizione, la spinse precocemente verso una politica estera di
prestigio internazionale, da “sesta delle grandi potenze”, che era
assolutamente sproporzionata rispetto
alla consistenza e alle risorse del giovane
Regno: “Ma che cosa intendete fare a Roma? (…): a Roma non si sta senza avere
dei propositi cosmopolitici. Che cosa intendete fare?”». Questo fu il concitato
richiamo che Theodor Mommsen rivolse a Quintino Sella una sera del 1871 e gli
uomini della nuova Italia raccolsero la sfida: la scienza laica e la grandezza
nazionale, questo fu il loro programma.
Lo avvertiva
(e lo deprecava) un uomo della vecchia Destra, il cavouriano e cattolico
Stefano Jacini: “Siete dei megalomani! – questo all’ingrosso il nucleo del suo
discorso – Altro che Triplice Alleanza e
colonie africane! Se foste consapevoli dei veri interessi del paese,
cerchereste una qualche intesa col Papa, magari accettando una garanzia
internazionale dei diritti che gli avete riconosciuti con la legge delle guarentigie;
vi conquistereste la fiducia del cattolicesimo organizzato e delle masse
contadine. Cessereste di concepire lo Stato come uno strumento di
colonizzazione interna: la realtà italiana è variegata e ricca di corpi
intermedi, quindi niente centralismo alla francese! Soprattutto dovreste
mettere mano alle condizioni delle popolazioni rurali: per renderle “italiane”,
è necessario alleviarne la tremenda miseria». Invece la classe dirigente
italiana (la più anticlericale e massonizzante, quella della Sinistra) strinse la Triplice, andò in Africa,
si lasciò affascinare dal mito di Bismarck. Plasmò una “religione della patria”, in cui questa veniva elevata a valore ultimo, in riferimento al quale ogni
norma di condotta trovava il
suo significato e la sua giustificazione: Salandra poi avrebbe parlato di
“sacro egoismo”.
Non a caso l’Appello a tutti gli uomini liberi e forti
con cui Luigi Sturzo riportava nel 1919 i cattolici nella politica italiana
aveva accenti in qualche modo “jaciniani”, cioè di critica radicale alla
politica dello Stato post-unitario: decentramento, libertà della Chiesa, legge
elettorale proporzionale, questione contadina, liberismo, wilsonismo.
E quella di
Sturzo non era Italia?
La
definitiva confluenza del mondo cattolico nella società nazionale ebbe luogo
con la Conciliazione
del 1929, sotto la dittatura. Ma la centralità che esso era destinato ad
assumervi la si vide dopo la guerra, nelle elezioni del 1946 e del 1948. Si aprirono i “giorni
dell’onnipotenza”, in cui a molti parve che la vecchia utopia giobertiana si
stesse finalmente realizzando. Ovviamente non era così: vi erano altre Italie,
che collaborarono con quella cattolica per la ripresa e lo sviluppo del paese.
Ma l’altra maggiore, quella comunista, diede a lungo per scontato che Gioberti avesse in fondo ragione: che non servisse a
nessuno dar di cozzo contro questo carattere “cattolico” della nazione italiana
e che fosse preferibile sviluppare la nuova democrazia col beneplacito della
Chiesa, evitando di riaprire le lacerazioni di fine Ottocento.
Fu la famosa
“pace religiosa” assicurata dall’art. 7 della Costituzione: concetto che poi è
stato molto criticato e su cui si è anche pesantemente ironizzato, ma che ha
validamente contribuito a quella compattezza sulle questioni essenziali (al di
là dei contrasti più feroci) che oggi molti individuano nella classe dirigente
post-bellica e che rese possibile al paese di attraversare, all’interno di un
quadro democratico, una fase di convulsa modernizzazione, con le dirompenti
conseguenze politico-sociali a tutti note. Per una sorta di eterogenesi dei
fini (l’osservazione è di Pietro Scoppola) proprio la modernizzazione garantita
dal governo del “partito cattolico” doveva segnare la fine della “nazione
cattolica”: i referendum del 1974 e del 1981 manifestarono la portata di tale
processo.
Ha vinto,
dunque, l’Italia laica, quella che si
riconosce nella tradizione del quotidiano su cui Schiavone ha pubblicato il suo
articolo? E’ difficile rispondere positivamente a questa domanda. Nel 1957,
Nicola Matteucci osservava che uomini come Piero Calamandrei erano stati in
fondo degli «sconfitti per tutta la vita: sconfitti dal fascismo, che per
vent’anni aveva fatto contro di loro la storia d’Italia, sconfitti nella
resistenza e nella liberazione, quando la storia d’Italia finì ancora per esser
fatta senza di loro, dagli uomini che si trovavano inseriti nei grandi
schieramenti popolari». Da allora si
sono avute almeno altre due sue sconfitte storiche: quella del 27 marzo 1994, allorché, con la vittoria elettorale di Berlusconi, quel mondo non fu capace di capitalizzare i frutti della crisi della prima
Repubblica, che sembrava averlo lasciato padrone pressoché esclusivo dell’agone
politico, e l’altra del 12 giugno 2005, quando, con referendume sulla fecondazione assistita, fallì nel tentativo di riaprire
e completare il ciclo iniziato coi referendum del ’74 e dell’81. Ma poi quella
tradizione è sempre la medesima? A ben guardare, essa presenta oggi una sempre
più evidente mutazione culturale, che la sta allontanando dalle proprie culture
classiche di riferimento (Croce, Salvemini e Bobbio) e avvicinando a
impostazioni sostanzialmente ateistiche e scientistiche.
Se quindi Messenia
piange, Sparta non ride. Questo fallimento dei progetti di lunga durata intorno
alla nazione italiana, delle varie “idee di Italia” che si sono succedute nella
sua storia recente, e l’incapacità di elaborare qualcosa di nuovo e di duraturo,
è forse il nocciolo vero della crisi attuale. Ma proprio questa situazione di
crisi dovrebbe indurre tutte le componenti della società nazionale ad adottare
una concezione inclusiva di nazionalità: così, se è necessario che il vario
mondo cattolico, pur rivendicando giustamente la sua italianità e la propria “idea d’Italia”, rinunzi a ogni
“giobertismo” di ritorno e a forme di risentimento storico dal sapore puramente
recriminatorio, l’Italia laica deve giungere
a considerarlo fra le radici principali della nazione italiana (non un detrito
del passato), e quindi a riconoscergli il diritto di far pesare la sua
sensibilità e i suoi presupposti religiosi e culturali nel dibattito pubblico.
Ci saranno, certo, nuovi conflitti, ma saranno conflitti fra coscienze, tutte
di pari dignità e di pari cittadinanza. Non fra i rappresentanti dell’Italia civile e gli epigoni della
Controriforma (non di quella vera, naturalmente).